Il terzo lavoro in studio dei Platonick Dive è un’immersione nell’elettronica, in un oceano di voci plasmate con distorsori e vocoder che arricchiscono un tessuto strumentale che già nei precedenti capitoli discografici aveva dimostrato di meritare l’attenzione dei più importanti mercati esteri. L’estro dei livornesi, per chi scrive di gran lunga la migliore live band che possiamo vantare nel nostro panorama, li ha portati ad evolvere il proprio post rock, avvicinabile a proposte come quelle di Explosions In The Sky e God Is An Astronaut, in una direzione melodica e sognante, cinematica e trionfale, senza scendere a compromesso alcuno. In tal senso ‘Overflow’ si era spinto ben oltre il pragmatismo e le esplosioni elettriche di ‘Therapeutic Portrait’ - più ascolto ‘Træ’ e più ci trovo tutti gli elementi che hanno caratterizzato le opere successive quasi come se il riassunto fosse stato pubblicato prima del resto - e quel concept tanto avveniristico e moderno a qualcuno era apparso come un punto di arrivo. Al contrario ‘Social Habits’ è il manifesto di un’ulteriore evoluzione e presenta dinamiche futuristiche e arrangiamenti ambiziosi, nei quali la voce è sempre più protagonista, che non disdegnano lo shoegaze e non tradiscono la potenza degli esordi ma la incanalano con determinazione in un contesto più variegato e coraggioso. Un album totalmente inclassificabile e commovente, che sfugge alle esigenze delle classifiche ma allo stesso tempo regala flussi armonici di alta classe. Il mixaggio è stato curato da Davide Bitozzi e Daniele Nelli, frontman di Tasters e Upon This Dawning e attualmente membro del duo trap Danien & Theø e del collettivo Kvlto. Quanto di meglio per esaltare il potente guitar work di Gabriele Centelli e Marco Figliè in grado di trascendere il suono in un’esperienza catartica. Un’ondata di synth altrettanto selvaggi sprigiona una moltitudine di visioni che accompagnano la terapia ed improvvisamente si smarrisce il contatto con la realtà, qualunque coordinata temporale finisce per smaterializzarsi e “tutte le luci nel cielo sono stelle”. Se da una parte ‘Habit’ e ‘Lago’ (chiusura epica che lascia stravolti e incapaci di reagire come dopo un orgasmo), spaventosa la performance alla batteria di Jonathan Nelli, recuperano soluzioni del passato, dall’altra pezzi come ‘Waxfall’ e ‘Maple’ interpretano le lezioni impartite da Jon Hopkins, Moderat e addirittura Rødhåd secondo un’ottica personale e originale. Semplicemente da brividi la sezione centrale con ‘Less Is More’, forse la traccia più vicina al materiale di ‘Overflow’, e ‘Polaroids’, uno degli apici assoluti della band, anche se non ha nessun senso parlare di un episodio piuttosto che di un altro. Siamo infatti al cospetto di un capolavoro assoluto che supera con leggerezza qualsiasi pregiudizio e limite.