La prima volta che ho incontrato di persona Jonathan Davis fu a Milano, in occasione della loro prima data al PalaLido, e trascorremmo il pomeriggio nel backstage a parlare dei suoi testi e delle tute dell’Adidas. La seconda volta, qualche mese dopo, mi collassò davanti agli occhi nel retro del Teatro Tenda di Firenze e il concerto, per il disappunto di David Silveira e di Fred Durst, non si fece. In seguito ho avuto modo di conoscere a fondo la personalità complessa di una delle più straordinarie voci dei nostri tempi e quasi sempre ho avuto la sensazione che per lui contassero molto di più le liriche che la musica. Nello specifico non siamo al cospetto di un debutto solista vero e proprio perché la colonna sonora di ‘Queen Of The Damned’ di fatto lo era già ma è evidente che stavolta, vuoi per la maggiore libertà discografica e vuoi per l’assenza di guest altisonanti, l’impegno ed il rischio correlato siano superiori. A due anni di distanza da ‘The Serenity Of Suffering’, con cui la formazione originaria di Bakersfield ha trovato un equilibrio tra le recenti tentazioni elettroniche e le radici nu metal, giunge nei negozi un masterpiece trasversale, attraverso il quale una delle icone della scena alternative metal si è misurata con tonalità inconsuete e sonorità industriali (‘Everyone’ e ‘Your God’) e gotiche (‘The Secret’) raggiungendo risultati a dir poco epici. Nella scaletta ci imbattiamo in elementi di discontinuità, commistioni tra generi differenti, chorus di impatto (‘What It Is’ e ‘Basic Needs’) e disegni armonici coraggiosi e ipnotici (‘Final Days’) che rapiscono l’attenzione e trascinano negli abissi. Il fervore lirico di Jonathan Davis, attivo anche nella sfera dubstep come JDevil, non è dissimile da quello che da sempre accompagna le release dei Korn ma ‘Black Labyrinth’ è un album più subliminale, costruito per crescere di ascolto in ascolto e che sfrutta al massimo il suo timbro vocale eccezionale. Tra gli altri Ray Luzier, Wes Borland e Miles Mosley lo hanno aiutato a completare tredici tracce che ci aiutano a capire quanto siano stati importanti The Cure (‘Medicate’) e Bauhaus per la sua crescita musicale.