Posso affermare di avere conosciuto abbastanza bene Joseph Talbot e Mark Bowen in occasione della loro esibizione a Iceland Airwaves di due anni fa e dopo un debutto geniale e corrosivo come ‘Brutalism’ mi aspettavo ancora più violenza e sadismo. Sono stato accontentato con un inno alla gioia e alla distruzione che si pone come alternativa principale allo smodato atteggiamento dei Fat White Family ed all’arroganza degli Shame e fa sperare in un futuro migliore per la scena anglosassone. Tentare di comprendere la band originaria di Bristol senza averla mai vista dal vivo è sul serio un’impresa improba. Un pò come poteva esserlo, alla fine degli anni ‘70, vantarsi di essere esperti di punk senza essere stati sotto palco ai primi show dei Sex Pistols o dei Wire. Al di là del paragone che potrà sembrare ardito ai più vecchi di voi, gli Idles sono una formazione assolutamente imprevedibile che riesce a coniugare la follia post punk nichilista degli autori di ‘Songs For Our Mothers’ con l’estetica dei Gang Of Four e spunti melodici deliranti (‘Television’ e ‘Rottweiler’). Ciascuna traccia si rivela scellerata, instabile, anticonformista e almeno in apparenza, lontana da qualsiasi logica. Fare meglio del debutto non era affatto semplice eppure gli Idles ci sono riusciti rimanendo onesti nei confronti della propria fanbase ma soprattutto di loro stessi. Le liriche di Joseph Talbot, colpito duramente dalla prematura scomparsa della figlia, sono più politici e cinici che mai e singoli quali ‘Colossus’ e ‘Samaritans’ prendono letteralmente a calci quanto la scena rock inglese ha prodotto nell’ultimo decennio. In chiusura la rilettura di ‘Cry To Me’, portata al successo da Solomon Burke.