“L’età dell’informazione è anche l’età della disillusione; ciò che vedi nel mondo è una rabbia ed una malinconia che spinge le persone a ricercare la semplicità, il senso di casa ed i valori familiari, che narravano gli Scaldi”. Con queste parole, in apparenza semplici ma che in realtà aprono un mondo di suggestioni, Ivar Bjørnson ha introdotto il viaggio a Utgard, un luogo mitologico dove vagano i giganti e gli dei di Asgard non hanno alcun controllo. Utgard può essere però considerato anche come uno stato mentale, un microcosmo dove riscoprire la propria creatività e lati della natura umana che non si conoscono. Nella copertina realizzata da Truls Espedal, i due corvi Huginn e Munnin esplorano tale territorio e si percepisce un senso di incertezza totale. Non c'è incertezza invece nel gruppo norvegese che ancora una volta è riuscito a superarsi con un disco che non prevede spazio alcuno per la luce. Un album, curato nei minimi dettagli, in cui la Natura e la componente cinematica vengono tenute in considerazione assoluta ma che, pur presentando stacchi progressivi ed atmosferici accentuati, non abbandona mai il black metal degli esordi. Grutle Kjellson è mostruoso come sempre ('Jettegryta' e 'Urjotun') e le doti di Håkon Vinje e Iver Sandøy hanno permesso un processo più condiviso, che dopo tanti anni di carriera non può che fare bene. Alcuni retaggi di ‘Axioma Ethica Odini’ e ‘In Times’ emergono alla distanza, ‘Homebound’ è un tributo alle loro origini mentre ‘Distant Seasons’ il pezzo più Pink Floyd in carriera, con buona pace degli Anathema, ma è nella sua incredibile compattezza che l’album sovrasta buona parte delle uscite degli ultimi tempi.