Seguo Myles Kennedy da quando ha iniziato a muovere i suoi primi passi nel dorato mondo del rock. L’ho scoperto con i troppo sottovalutati The Mayfield Four per poi accompagnarlo, come il più classico dei fan incalliti, nel suo percorso con gli Alter Bridge prima e con Slash poi. Chiaramente, oltre ad averlo visto dal vivo un buon numero di volte, sono rimasto piacevolmente colpito dal suo album d’esordio (“Year Of The Tiger”), un concept semiacustico in cui ha dato spazio alla sua vena prettamente cantautorale. Il tutto è sempre stato condito da una voce che, realmente, mi emoziona come poche altre al mondo. Anzi, ad essere sinceri, è una delle cose più belle che le mie orecchie abbiano ascoltato da quando ho amato la musica. Una premessa del genere è fondamentale per capire come un “minimo” di parzialità ci sia da parte del sottoscritto nel giudicare ogni cosa venga realizzata dall’artista americano. “The Ides Of March”, rispetto al suo esordio, sposta l’obiettivo su un rock più tradizionale, con delle vere e proprie venature blues che si ascoltano prepotentemente da subito, se si pensa, ad esempio, al primo singolo “In Stride”, a “Tell It Like It Is” o alla finale “Worried Mind” in cui davvero Kennedy abbraccia senza problemi quella che è la vera tradizione musicale a stelle e strisce. A differenza di quanto ci si possa aspettare, il frontman degli Alter Bridge tenta anche la strada dell’azzardo, vedi la title track, un brano molto lungo, ma che non prende, neanche dopo numerosi ascolti. E’ ampolloso e senza il cambio di marcia, perso tra riferimenti quasi da club e soluzioni che non esplodono in un ritornello epocale che ci si aspetterebbe in casi come questi. Va decisamente meglio quando si ritorna al classico “lentone” che commuove e che avrebbe tutto per infiammare pubblico e classifiche (“Moonshot”). Il rock, quello più tradizionale del termine, ma lontano anni luce dalla potenza delle sue band madri, fa capolinea nella soddisfacente “A Thousand Words” e in “Wake Me When It’s Over” che sono due pezzi interessanti per come si sviluppano e in cui è l’ugola dell’uomo di Spokane a tracciare un solco tra un fuoriclasse e un interprete normale. A proposito di quest’ultima va detto che è la canzone che più ricorda gli ultimi The Mayfield Four e non deve meravigliare se nei propri dischi da solista Kennedy si sia servito del suo ex batterista Zia Uddin. Sul resto del lavoro c’è poco da dire. Ci sono tracks di impatto relativo come “Get Along” e spunti più acustici che potrebbero essere visti come una continuazione del suo esordio (“Love Rain Down” e “Wanderlust Begins”). Al tirare delle somme che giudizio si può dare a questa nuova opera della letteratura musicale kennediana? Chi si aspetta un disco alla Alter Bridge (soprattutto i primi) rimarrà deluso, così come sono assenti gli sporchi spunti da strada creati ad arte da Mr. Hudson (al secolo Slash). Qui siamo nel campo dei Tom Petty più rock e dei Wallflowers, o forse per essere sinceri siamo nel mondo di Myles Kennedy, con tutti i suoi pregi (a mio avviso parecchi) e i suoi difetti (pochi), tanto per rimanere nel campo dell’imparzialità che nel caso di specie risulta essere molto difficile da attuare.