Cosa è rimasto degli Our Lady Peace che tanto avevano destato scalpore durante gli anni novanta? La risposta è abbastanza chiara: nulla! La band canadese, che nel primo decennio di carriera aveva inanellato una serie di dischi pazzeschi, sembra essere la copia scialba e grigia di quella che aveva fatto gridare al miracolo i fans di mezzo mondo che erano usciti di testa quando vennero dati alla luce lavori come “Clumsy” o “Naveed”. L’ultimo grande disco dei nord americani fu il concept “Spiritual Machines” che conteneva al suo interno un pugno di canzoni bellissime e ricche di patos che avevano fatto capire, ancora una volta, come Maida e compagni avessero un talento smisurato che, purtroppo, gli era stato riconosciuto soprattutto in patria dove continuano anche oggi ad essere adorati e venerati. Dopo quel disco, però, iniziò la crisi, con una serie di abbandoni importanti. Il primo a lasciare la nave fu il chitarrista Mike Turner e successivamente venne seguito dal grandissimo batterista Jeremy Taggart. Inoltre, a partire da “Gravity” la formazione intraprese un percorso di indebolimento sonoro che l’ha portato sino ai giorni d’oggi dove davvero risulta essere un’entità semplicemente pop che con il rock alternativo non ha più nulla a che vedere. Riprendere, poi, un capolavoro come “Spiritual Machines” e creare un sequel elettronico e senza mordente come questo album uscito nel 2022, risulta essere impietoso e soprattutto poco rispettoso verso un disco che all’epoca fu una vera e propria botta. In questo “Spiritual Machines II” ci sono tanti brani, alcuni dei quali hanno tutto per andare a finire in classifica, grazie a ritornelli facili e immediati. “Holes”, “The Message”, “Simulation” e “Good Die Young” sono canzoncine che hanno davvero i crismi per essere canticchiate quando si fa la spesa al supermercato o quando si è in piscina a prendere il sole, ma che con il rock non hanno nulla a che vedere. Insomma la discesa degli Our Lady Peace verso il baratro della mediocrità musicale sembra essere inarrestabile. In questi casi, per ovviare a tutto ciò, l’unica cosa da fare è prendere i primi quattro lavori della band ed ascoltarli tutti di un fiato. Solo così si capirebbe che cosa erano negli anni novanta e che cosa sono ora. A quel punto sarà più facile trarre un giudizio obiettivo e spassionato, al netto dei cambiamenti di stile che, in un percorso artistico, sono sempre bene accetti, a patto che la qualità non venga mai meno. E ultimamente la parola qualità sembra fare pesantemente a cazzotti con il nome di questa storica band.