Nella storia della musica è molto frequente trovarsi dinnanzi a gruppi o artisti che raramente hanno sbagliato qualcosa e che risultano essere coerenti con il percorso intrapreso dall’inizio della propria carriera sino a quando non hanno appeso gli strumenti al chiodo. Chi non ha, fortunatamente, voglia di fermarsi e di smettere di stupire sono i Marillion, che ormai rappresentano delle vere e proprie mosche bianche all’interno del variegato panorama rock. Giunta al ventesimo album e con il fantasma di Fish che sempre è nelle menti e nei pensieri dei fans die – hard, la band anglosassone, anche questa volta, ha fatto centro con un album sognante e pieno di atmosfere variegate che si sposano bene con le caratteristiche tecniche di musicisti superlativi che sono ancora in grado di disegnare degli affreschi sonori di assoluta qualità. Sette sono i pezzi contenuti all’interno di “An Hour Before It’s Dark”, anche se alcuni di essi, vista la loro lunghezza, sono suddivisi in ulteriori mini canzoni, che non annoiano mai, ma che risaltano per bellezza, a partire dal singolo “Murder Machines” che ricorda qualcosa dei Simple Minds, ma che non tarderà a scaldare i cuori dei fans, perché sarà sicuramente elemento di godimento nelle prossime attività concertistiche dei nostri. La voce di Steve Hogarth è come al solito magnifica ed appare quasi come un qualcosa di ultraterreno, dal momento che si incastona alla perfezione con la musica paradisiaca che i suoi compagni gli cuciono addosso alla perfezione. L’opener “Be Hard On Yourself” è un altro piccolo capolavoro, anche se la vera gemma del disco è collocata proprio alla fine e risponde al nome di “Care”. Qui c’è tutto: abilità tecnica, capacità di creare un sound da viaggio, melodie che ti si conficcano in testa, voce superlativa, intrecci di canzoni all’interno di altre canzoni. Davvero un’opera d’arte come poche volte ci era capitato di ascoltare in passato. Pur essendo inseriti nel calderone delle band rock prog, i Marillion sanno benissimo come non annoiare l’ascoltatore, visto che riescono a mettere a servizio della canzone la propria capacità strumentale, senza, però, eccedere nell’onanismo o nell’autoesaltazione di sé stessi. E se dopo oltre quaranta anni sono ancora qui, un motivo deve pure esserci.