La storia degli Starbenders è davvero molto particolare. Attivi da oltre dieci anni, gli americani provenienti da Atlanta hanno fatto uscire nel corso della loro carriera un numero spropositato di singoli, mentre per quanto riguarda i full length, con “Take Back The Night” sono giunti appena al terzo capitolo sulla lunga durata. Il loro sound paga dazio al glam californiano degli anni ottanta, anche se esso è chiaramente contaminato da sonorità molto moderne in cui fa capolinea l’uso abbastanza forte dell’elettronica. In pratica, grazie ad una produzione di primissimo ordine, la proposta risulta molto attuale e anche godibile, per merito, va detto, di un pugno di canzoni che non faranno la storia, ma che hanno tutto per essere ascoltate e canticchiate in macchina o sotto la doccia. Insomma, non c’è nulla davvero di trascendentale, ma tutto appare definito nella norma tipica di un rock “easy listening” che ha in brani come la semi-ballata “Cherry Wine”, la trascinante “The Game” e l’ammiccante “The Sex” i suoi esempi migliori. Il resto dell’album non si discosta dagli episodi appena descritti. Si va dalla notturna “Seven White Horses”, alla rockeggiante “If You Need It”, passando per il classico riferimento ai mai dimenticati anni ottanta “Poison”, che altro non è che la cover del mitico pezzo di Alice Cooper, senza che ci si accorga che il tempo sta passando inesorabilmente. Insomma, stiamo parlando di rock, ma molto plastificato nella sua definizione, dove sembra che tutto sia stato scritto a tavolino, sacrificando la spontaneità sull’altare di un successo che, probabilmente, non tarderà ad arriva negli Stati Uniti, paese dove gli Starbenders sono conosciutissimi e amati trasversalmente sia da chi è cresciuto con i Motley Crue nel walkman e sia da chi ha adorato gli Alice In Chains, con quest’ultimi che se li sono, addirittura, portati come gruppo supporto in uno dei loro ultimi tour.