I Foghat rappresentano in maniera incontrovertibile ed inequivocabile la classica band che è in giro da tantissimi anni, ma che in pochi, in realtà, conoscono. Sono sulla breccia dai primissimi anni settanta e con “Sonic Mojo” hanno toccato il loro diciottesimo disco di una carriera che è stata molto dignitosa in cui, però, è stato raccolto poco rispetto al reale valore della proposta offerta al pubblico. Con questo nuovo lavoro i veterani hanno cercato di dare una spolverata a quello che è il vocabolario del rock tradizionale, offrendo un pugno di brani molto ben suonati. Ci sono ballate languide come “Time Slips Away”, echi profondi degli Stones del periodo Mick Taylor in “Black Days & Blue Nights” e inevitabili riferimenti ai ZZ Top di “El Loco”, vedi l’opener “She’s Little Bit Of Everything” e “Drivin’On”, con queste ultime due tracce che realmente non possono non ricordare i grandi classici scritti da Bill Gibbons e soci. L’album scorre via che è un piacere e, seppure non ci sia nulla di nuovo sotto il sole, si lascia ascoltare tranquillamente, dominato dal blues che rimane il genere su cui i nostri simpatici eroi impiantano lo scheletro di ogni singola canzone. Ci sono anche momenti più rilassati, quasi alla Jeff Haley che viene letteralmente citato con la interessante “Mean Woman Blues” che andrebbe bene come colonna sonora di qualche film sentimentale. Non manca neanche la cover di ordinanza che, nel caso di specie, è “Promised Land” di Chuck Berry. Ad ogni modo, se proprio dobbiamo dare la palma di MVP a una traccia, ci sentiamo di assegnarla a “How Many More Years”, un blues profondo e intenso come pochi, in cui si nota la grande arte di una band che, davvero, ha racimolato poco rispetto al proprio indiscutibile talento. Non saranno né i primi e né gli ultimi ad avere subito una tale ingiustizia nell’indecifrabile mercato musicale ed è questa, forse, la loro unica consolazione.