Partiamo da una premessa molto importante: una major come l’Universal che decide di far uscire un disco come “Mask Of The White Ape” dimostra di avere grandissimo coraggio e merita tutti gli applausi di questo mondo. Sembra quasi di essere ritornati a venti o trenta anni fa quando le case discografiche non avevano paura a scritturare artisti liberi che producevano musica difficile da catalogare e molto incline alle sperimentazioni. Micheal Kepler, musicista italo svizzero, ha fatto proprio questo con il suo disco da solista, ovvero ha cercato di creare un vero e proprio viaggio strumentale andando a pescare a piene mani dalle tradizioni di un certo prog chic, con vari riferimenti attuali a gente quale Steven Wilson e i suoi Porcupine Tree. In tutto questo abbiamo otto composizioni, molto lunghe, ed un cantante di assoluto rilievo come Alessandro Ranzani (Movida), bravissimo a cucire il tutto e ad ornamentare con la propria splendida voce brani di difficile fruizione. Le chitarre, presenti in grande abbondanza, non risultano mai invasive all’interno del contesto in cui vengono piazzate. Si tratta, per lo più, di veri e propri viaggi come dimostrano la cupa “It Does Not Rain” o la lunghissima “Dead But I’M Still Moving”. Le melodie, che uno come Ranzani ha sempre messo in primo piano nel corso della sua carriera, ci sono, ma risultano sempre poco visibili. L’orecchio si deve prodigare e non poco per andarle a scovare, ma dopo che le ha trovate non ne vuole sapere di staccarsene (“Nobody Told You To Do”). Per il resto, tra riferimenti psichedelici tipicamente anni settanta come “Give’ Em Dope” e passaggi più aggressivi del solito, vedi l’introduzione di “Orange Is The Ocean”, l’album scorre via in maniera impetuosa e, allo stesso tempo, interessante. Ci sono tanti scorci da scoprire all’interno di un paesaggio sonoro variopinto e colorato. Per trovarli, però, bisogna metterci tempo e pazienza, ma sta proprio qui il valore aggiunto di un lavoro che si rivela libero e di assoluta classe.