Ormai Myles Kennedy si è creato da anni un’ottima comfort zone, fatta di dischi, tour e collaborazioni varie. Il piano segue delle direttive precise: album con gli Alter Bridge, poi uno con Slash e infine ci si trova lo spazio per accontentare il proprio ego solista, il tutto intervallato da concerti infuocati che il nostro tiene da solo o con i suoi gruppi di riferimento intorno al globo. Da underdog all’interno degli immensi The Mayfield Four, il suo ruolo si è trasformato con il passare degli anni in quello di vera e propria star internazionale, grazie ad una voce immensa che lo pone tra gli ultimi grandissimi cantanti della storia del rock (chi storce la bocca su quest’ultima affermazione ha seri problemi di udito). Ora, in tutto questo tourbillon, il buon Myles ha avuto modo di piazzare il suo terzo disco solista che conferma quanto avevamo avuto modo di apprezzare con il precedente “The Ides Of March”. I suoni sono molto cupi e decisamente più duri rispetto all’esordio acustico “The Year Of The Tiger” che rappresenta, ancora oggi, un vero e proprio unicum all’interno della sua vastissima discografia. In “The Art Of Letting Go” troviamo un minestrone ben preparato, buono da gustare a cui, forse, manca quel pizzico di originalità che lo porrebbe come piatto prelibato all’interno di un ristorante a cinque stelle. Ci sono pezzi di maniera e radiofonici come “Say What You Will” e altri più tosti nel suo complesso, vedi la titletrack o “Mr. Downside”, che possiedono tiro e ampi squarci melodici. Le atmosfere si rivelano sempre corredate da un certo buio di fondo che si ampiano quando il ritmo cala. “Miss You When You’re Gone” è un lento standard all’interno della sua produzione, a differenza, ad esempio, di una “Eternal Lullaby” che ci riporta indietro ai tempi puri dei summenzionati The Mayfield Four. Gli Alter Bridge ritornano alla mente con “Behind The Veil” (c’è molto Jeff Buckley nella sua interpretazione) che sarebbe stata perfetta per una delle loro ultime fatiche che qualche dubbio ci hanno lasciato. Per il resto la musica scorre libera e si fa ascoltare con piacere, vedi “Saving Face” dominata da un basso distorto e “Dead To Rights” che non dovrebbe avere difficoltà a trovare spazio in concerto. L’ultimo paragrafo lo dedichiamo a “Nothing More To Gain” e alla conclusiva “How The Story Ends”, due canzoni intense e sostanziose. La prima, con quella sua marcetta iniziale, lascia spazio ad un certo punto a un ritornello imponente, mentre la seconda ha un tiro quasi sinistro che presenta inizialmente delle influenze cupe, salvo poi sfociare in una cascata di elettricità e melodia trasversale che fa capire come il buon Kennedy abbia ancora delle cartucce da sparare all’interno del mondo del rock.