Col terzo cambio di cantante nel ristretto spazio di quattro album, gli Adema sembrano imputare l’anonimato della loro carriera alle corde vocali del malcapitato di turno, tradendo sistematica carenza d’obiettività ed involontario autolesionismo. In realtà, il grande male oscuro che affligge l’ispirazione di questa band, così come qualsiasi musicista giunto al crepuscolo del fenomeno nu metal, è la conclamata assenza di punti di riferimento all’interno di una corrente ormai implosa e definitivamente abbandonata anche dagli stessi padri putativi. In effetti, per molti dei trend affermatisi nell’ultimo ventennio, il triste destino delle seconde linee è sempre stato legato alle fortune dei gruppi leader, e non solo per gli incassi garantiti dalle relative somiglianze stilistiche, ma soprattutto grazie alla nuova linfa che solo gli artisti di livello superiore possono instillare nelle vene di qualsiasi genere musicale. Per loro somma sfortuna, agli Adema non sono rimasti niente più che i Linkin Park ed il loro innocuo pop rock da collegiali quali modelli di partenza per la composizione di questo ‘KTH’, album che accusa una piattezza negli arrangiamenti ed una banalità melodica quasi imbarazzanti per una band sicuramente consapevole di operare in assoluta controtendenza rispetto alle mode attuali. Il nuovo singer Bobby Reeves (ex Level, al pari del chitarrista Ed Faris) svolge il proverbiale compitino nei sovrabbondanti ritornelli zuccherosi ed arranca indecorosamente nei rarissimi stacchi aggressivi, lasciando sullo sfondo le solite chitarre compresse intervallate da prevedibili inserti elettronici ed una sezione ritmica in evidente debito di fantasia. La sensazione netta è che se mai il nu metal dovesse vivere una seconda giovinezza, non sarà per merito di un gruppo come gli Adema.