I due ultimi album dei Clutch non mi avevano impressionato. Al contrario certe soluzioni forzatamente spigolose e stravaganti mi infastidivano perché a mio avviso limitavano l’estro di un gruppo molto valido. Con ‘Robot Hive/Exodus’ la band del Maryland recupera invece il terreno perduto lasciando libero di fluttuare l’amore per il southern rock e le proprie radici. L’utilizzo massiccio dell’hammond e un deciso indurimento di un suono dove emergono influenze seventies e blues trasformano l’alternative metal di un tempo in un vero e proprio tributo a gruppi come Allman Brothers e Deep Purple riletti secondo un’ottica a volte aggressiva (‘Burning Beard’ e ‘Mice And Gods’) altre rilassata (‘Circux Maximus’). Il cantato di Neil Fallon si muove tra soul, funk e stoner illuminando pezzi come ‘Gullah’, ‘10001110101’ e ‘Never Be Moved’ che ci illustrano tutte le sfaccettature di una band non certo comune capace di alienare, stordire, sorprendere nonostante l’evidente tuffo nel passato. Chiudono l’album le cover di Mississipi Fred McDowell (‘Gravel Road’) e Howlin’ Wolf (‘Who’s Been Talking ?’) che dimostrano l’intento dei Clutch di evadere completamente o quasi dalla negativa esperienza maturata con ‘Blast Tyrant’ e tornare a colpire con la semplicita’ e la saggezza dei padri del rock. Chiamatelo alternative blues..