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Iceland Airwaves 2015: Saturday November 7th

Dopo quattro giorni trascorsi a vagare per le strade della città in cerca di gruppi senza praticamente dormire anche il più infaticabile dei giornalisti sarebbe crollato ma con un programma come quello del sabato sarebbe stato un delitto non farsi trovare preparati e quindi bevande energetiche in quantità, sostanze stupefacenti di vario tipo, ragazze di dubbia provenienza ammaliate dalla barba lunga, appuntamenti al buio, interviste su interviste. Tutto plausibile finché ci si regge in piedi. La giornata è iniziata all'Hitt Húsið con Murmur, proseguita al KEX con le Reykjavíkurdætur – niente tette al vento stavolta ma è stato un caso per la crew definita “Viking-maiden spin on the Wu-Tang Clan” - e Úlfur Úlfur con dj. Flugvél og geimskip come divertente intermezzo nella Landsbankinn di Austurstræti. Questa ragazza ama le stelle, i bambini e gli alieni, distribuiva la coca cola col suo nome sopra e non è normale. Naturalmente avrà successo.

Nel mentre Gangly, Gísli Pálmi, Hjaltalín, Teitur Magnússon e Oyama davano ancora prova della loro bravura io mi concentravo su due concerti in particolare ovvero gli Æla e Low Roar. Due band quasi all'opposto. I primi suonano noise punk, sono figli di Shellac e Unsane, con vestiti da biancaneve e trucchi improbabili. Devastanti. Il secondo è il progetto di Ryan Karazija che l'anno passato ha dato alle stampe un piccolo capolavoro come '0', seconda prova solista dopo lo scioglimento degli Audrye Sessions ed il trasferimento in Islanda. La sua musica è deliziosa come del resto la persona che ne possiede la visione. Ho avuto modo di discutere con lui al bar dell'Harpa e vi assicuro che di artisti così se ne trovano pochi in circolazione. Il Bryggjan Brugghús era tutto per lui. Da impazzire la serie di concerti della sera. Prima gli interessanti Döpur al Gaukurinn, in seguito travolto dall'impeto dei canadesi The OBGMs, e Soffía Björg al Norðurljós – dolcissima e sexy lei, ispiratissimo Pétur Ben alla chitarra - poi è venuto il turno dei Kiasmos e non ho capito più niente. Il concerto di Ólafur Arnalds e Janus Rasmussen è stato di un'intensità pazzesca tra fumi dance, beat claustrofobici e un desiderio di aprirsi a qualunque realtà musicale che nessun altro progetto che si muove nel medesimo ambito può vantare. Vedere il pianista neoclassico di '...And They Have Escaped The Weight Of Darkness' e 'For Now I Am Winter' scatenarsi in quel modo sulle note di 'Looped' e 'Lit' è stato prodigioso e la reazione del pubblico, in una sala colma fino all'impensabile a dispetto della tranquillità della security, ha raggiunto vette surreali durante l'esecuzione di 'Thrown'.

Per una volta ho tradito Sóley e seguito i Beach House ma devo dire che la prova di Victoria Legrand e Alex Scally è stata tra le più deludenti dell'intero festival. Saliti sul palco in dubbie condizioni e penalizzati da continui litigi col fonico e tra di loro, gli autori di 'Bloom' e 'Depression Cherry' non hanno reso come ci si aspettava. Per carità, al momento di 'Myth' si è capito il motivo di tanto interesse da parte della stampa e della scena indie ma era lecito attendersi di più. Più rigoroso lo show dei Battles che hanno dato vita ad uno spettacolo estremamente tecnico e allo stesso tempo ricco di feeling. I newyorkesi hanno forse perso qualcosa senza Tyondai Braxton ma gli estratti di 'La Di Da Di' hanno reso alla grande dal vivo. Da spaccarsi le ossa anche il concerto dei GusGus ormai padroni in terra islandese di tutto quello che è dance e synth pop. Gli autori di '24/7' e 'Mexico' sanno giocare a scacchi e muovere le pedine al momento giusto. La sala Silfurberg è esplosa mentre al Kaldalón veniva applaudito Rozi Plain e all'Iðnó i Vintage Caravan. Verso le due mi sono trovato al Gamla Bíó a vedere i Dikta. Non so con chi. Non so come. Per fortuna eravamo già a domenica.

(parole di Lorenzo Becciani)