Ore 13. Ritrovo obbligatorio nonostante il caldo asfissiante. Uno crede di andare in Danimarca a prendere un po' di fresco e invece.. Body Count! Ice-T è salito sul Green Stage col suo manipolo di delinquenti e ha spazzato via tutti con uno show potente e ben calibrato tra influenze heavy metal, attitudine hardcore e radici rap. Come prima traccia è stata scelta la cover di ‘Raining Blood/Postmortem’ degli Slayer e da quel momento il pogo non si è fermato un secondo con ‘Manslaughter’, ‘There Goes The Neighborhood’ e l’immancabile ‘Cop Killer’ protagoniste assolute del concerto. Il tempo di prendere fiato, mentre i Gangs Of Youth mostravano un discreto repertorio, ed ecco uscire dal backstage i Rival Sons. La loro è stata una performance assurda, adrenalinica dal principio alla fine, sospinta a gran voce da una folla incredibile di persone. Lo spettacolo ruota parecchio attorno a Jay Buchanan, frontman talentuoso e capace di reggere le fila del gioco, ma ogni musicista ha dimostrato di non essere lì per caso. Al contrario delle Warpaint che dal vivo mi scadono, i dischi dei Rival Sons non mi hanno mai fatto strappare i capelli ma in sede live spaccano di brutto. Da Long Beach a Aahrus il salto è notevole ma gli autori di ‘Head Down’ e ‘Hollow Bones’ sembrano essere adatti a tutte le occasioni e pezzi come ‘Good Luck’, ‘Thundering Voices’, ‘Memphis Sun’ e ancora ‘‘Open My Eyes’ e ‘Keep On Swinging’ hanno acceso i presenti. A seguire il programma costringeva ad una scelta non semplice. Girare le spalle ed ammirare i Cigarettes After Sex al Blue Stage oppure girare l'angolo e scendere la collina per respirare le gelide atmosfere nordiche di Aurora. Un buon reporter non deve farsi mancare nulla e quindi mi sono armato di coraggio e ho attraversato di corsa l'arena per non assistere a larga parte del set di entrambi. I primi sono uno dei gruppi del momento, il loro debutto è un ottimo album ambient pop che ha saputo conciliare le aspettative della scena indie, alla ricerca disperata di nuovi talenti, e le esigenze di coloro che sono ancora legati ad un songwriting vecchio stampo. Le qualità di Greg Gonzalez sono fuori discussione e lo show degli americani, seppure non perfetto, sta migliorando di data in data. Di Aurora invece c'è poco da aggiungere rispetto a ciò che vi ho già detto in altri report. La leggerezza con cui si prende delle note incredibili è qualcosa che difficilmente si può raccontare e, in attesa del successore di ‘All My Demons Greeting Me As A Friend’ che conterrà pure la devastante ‘Queendom’, le sue labbra scandiscono parole magiche che non possono lasciare indifferenti. L'unico rischio è che venga etichettata per quello che non è. Lasciatela libera e diverrà un'artista pazzesca. Passsa il tempo e l'atmosfera cambia in maniera repentina. È il momento del mainstream, dell'hip hop e dei singoli da classifica. Prima è toccato ai N.E.R.D. di Pharrell Williams, Chad Hugo e Shae Haley dare vita a uno show dall'alto tasso commerciale e total black. Niente di imperdibile per carità ma davanti a colossi del genere è difficile stare fermi e, considerato lo spazio abbastanza ridotto per il genere, il pubblico ha gradito non poco. Dal recente ‘No One Ever Really Dies’ sono state estratte ‘1000’, ‘Deep Down Body Thurst’ e la conclusiva ‘Lemon’ ma a sbaragliare la concorrenza ci ha pensato un The Neptunes Medley da brividi. Alle sette, lo spocchioso Liam Gallagher, se non vuoi più eseguire 'Wonderwall' non lo fare ed evitaci sceneggiate, si è esibito in parallelo ai Jimmy Eat World, che non si sono spaventati dal paragone e hanno raccolto comunque un bel po' di gente. Il bello doveva però ancora venire e nel venerdì del Northside il bello è stato tradotto con A Perfect Circle, The National e Queens Of The Stone Age. Tre concerti da brividi, tre formazioni sulla carta molto diverse tra loro ma che hanno in comune l'abilità nel trascinare i propri fan e spingerli oltre i propri limiti, sensoriali e fisici. Maynard James Keenan e Billy Howerdel erano attesi in tour dopo la release dello stupefacente 'Eat The Elephant' e anche stavolta non hanno deluso. Suoni della madonna, una voce che non ha niente di umano e una strumentazione da capogiro hanno caratterizzato un concerto che verrà ricordato da tutti i presenti. Nemmeno un momento di stanca, nemmeno un pezzo meno interessante degli altri; per un’ora circa gli statunitensi hanno martellato l’audience senza concedere la minima tregua. ‘Hourglass’ e ‘The Hollow’ hanno illuminato la prima parte del set, le nuove ‘Disillusioned’ e ‘The Contrarian’ hanno passato la prova del live ed il finale è stato assolutamente irresistibile. ‘TalkTalk’ e ‘The Doomed’ hanno infatti anticipato la cover di ‘Dog Eat Dog’ degli AC/DC e ‘The Outsider’, dal capolavoro ‘Thirteen Step’. Matt Berninger è un frontman sempre più bravo e il bello dei The National è che il loro show sa essere pieno di energia e ricco di emozioni indipendentemente dalla setlist scelta. È vero che ormai hanno tanti dischi di successo alle spalle ma è altrettanto vero che in pochi casi, come per la band originaria di Cincinnati, i musicisti fanno così tanto la differenza. Stupende ‘I Need My Girl’, dedicata dal cantante alla propria figlia, ‘Fake Empire’, ‘Mr. November’ e ‘Terrible Love’. È toccato infine a Josh Homme demolire le restanti energie dei presenti e aggiudicarsi l'ipotetico titolo di vincitore assoluto del festival. Sarà antipatico, vanitoso, poco rispettoso e rissoso quanto volete ma i Queens Of The Stone Age spaccano e fin dalle iniziali ‘The Way You Used To Do’ e ‘Sick Sick Sick’ non ce n'è stato per nessuno. Non c'entra lo stoner, il desert rock o il passato nei Kyuss. Non c'entra nemmeno la tecnica, che è buona ma non introvabile da altre parti. C'entra il feeling, l'attitudine, quel piglio da testa di cazzo che ti rende fantastico agli occhi dei fan. Quando è partito il refrain di 'No One Knows' è venuto giù il mondo, al riff di ‘If I Had A Tail’ il parco che ospitava il festival ha subito almeno un paio di scosse telluriche e così fino al termine di un set tiratissimo, spettacolare e che ancora una volta ha dato merito al musicista nativo di Palm Springs di avere seguito la strada giusta in un momento in cui pochi lo avrebbero fatto. Mi ha sorpreso l’esclusione di ‘Head Like A Haunted House’, dall’ultimo lavoro in studio ‘Villains’, ma ‘Little Sister’, ‘Go With Flow’ e ‘A Song For The Dead’, direttamente da chissà quale Desert Session, hanno scatenato il delirio. Prima di andare a letto il Red Stage ha abbracciato Wayne Kramer ed i suoi MC50 che ho avuto il piacere di avere come compagni di volo sia all'andata che al ritorno. Insieme a lui Kim Thayl e Matt Cameron dei Soundgarden, Marcus Durant dei Zen Guerrilla e Don Was, produttore tra gli altri di Bob Dylan, Rolling Stones e Iggy Pop. Sarà anche questo revival ma che dire... 'Kick Out The Jams' è sempre ‘Kick Out The Jams’...
Parole di Lorenzo Becciani