E’ strana davvero la storia degli Sponge, band post-grunge che conobbe un buon successo nella seconda metà degli anni novanta grazie ad un paio di dischi molto interessanti come “Rotting Pinata” e “Wax Ecstatic”. Sopravvissuti a tanti cambi di line-up, tanto che l’unico membro originale del gruppo è rimasto il carismatico cantante Vinnie Dombroski (per lui anche un’esperienza interessante con gli Spys4Darwin insieme a Chris De Garmo dei Queensryche, Mike Inez e Sean Kinney) il gruppo di Detroit ha sfornato negli ultimi venti anni tanti buoni lavori, dove hanno mantenuto alto il proprio songwriting, grazie a quell’uso mescolato di chitarroni e melodie che non guastano mai, soprattutto in America. Quasi a sorpresa, dopo qualche anno di silenzio camuffato, gli Sponge sono ritornati con “Lavatorium”, un album pasticciato e pasticcione dove al suo interno c’è tutto e il contrario di tutto. I generi toccati sono svariati, visto che si spazia dal rock tradizionale (“Stitch”), al grunge alla Soundgarden (“Catastrophilia”), per passare al country rock di “If Cobain Was A Cowboy”. In pratica, in un minestrone di generi, gli Sponge, che nel corso della loro carriera hanno sempre spaziato su più fronti, sembra che questa volta abbiano perso la rotta, portando alla ribalta un pugno di brani che non passerà decisamente alla storia. Anzi, ad essere sinceri, la vena compositiva sembra che abbia davvero abbandonato Dombroski e soci e questo è un vero e proprio peccato, perché “Lavatorium” lo si può definire il primo grande passo falso di una carriera dignitosa. E se a provare a salvare il tutto ci vuole una versione normalissima di “Plowed”, il loro più grande successo datato 1994, questo fa capire come gli americani abbiano raschiato il fondo del barile.