Adrian Vandenberg è rinomato per essere un chitarrista dall’enorme talento. Lo sanno tutti, in particolar modo David Coverdale che lo volle con sé a metà anni ottanta portandolo dentro ai Whitesnake. Quest’esperienza deve aver segnato parecchio la carriera del musicista che, a distanza di tre anni da “2020”, ritorna con un lavoro che sa tantissimo di “serpente bianco”. Il merito va, non solo alle partiture disegnate da Vandenberg, ma soprattutto alla voce dell’ex Candlemass e Gus G Mats Leven che sostituisce per l’occasione Ronnie Romero. L’ugola di Leven ricorda in tutto e per tutto quella dell’ex Deep Purple e se a questo si uniscono le sonorità tipiche di capolavori come “1987” e “Slip Of The Tongue” il gioco che ne viene fuori è bello che fatto. Ci sono pezzi tosti ed immediati come la potente “Light It Up” e le semi ballate dal tenore di classifica come “Walking on Water” e “Baby You’ve Changed” che hanno una qualità impressionante. Alla fine, però, è tutto l’album ad avere grandi momenti di hard rock, che è proprio tipico delle band di quegli anni, andando a volte a sfiorare anche i primi Rainbow grazie ad “House On Fire”. La titletrack è un’altra canzone monumentale e la produzione di Bob Marlette rende il lavoro assolutamente compatibile con quelli che sono i tempi che stiamo vivendo. È come se il rock attuale si fidanzasse con quello di trent’anni fa e il risultato che ne esce fuori è di buon livello. Verosimilmente in molti parleranno di plagio o di sindrome alla Greta Van Fleet, perché davvero se si chiudono gli occhi ci pare di ascoltare la storica band del sig. Coverdale che in questo periodo sembra essere vicino alla fine del suo percorso artistico. Presumibilmente, anzi, quasi sicuramente questo doveva essere il disco che i Whitesnake avrebbero dovuto pubblicare nel nuovo secolo e che non sono stati in grado di farlo. Ci ha pensato un loro ex componente. Probabilmente non è la stessa cosa, ma va, comunque, bene lo stesso.