A volte le lunghe pause artistiche fanno bene. I Black Country Communion, dopo ben sette anni di stop forzato e, probabilmente, anche voluto, ritornano sulla scena con il loro quinto capitolo, dal titolo molto semplice da ricordare, ovvero “V”. Si tratta di un come-back di tutto rispetto quello messo in pratica da questo supergruppo che continua a scrivere musica che paga dazio al grande hard rock degli anni settanta. Il quartetto viaggia da subito su binari di assoluta qualità come dimostra “Enlighten”, classico brano di puro stampo Glenn Hughes in cui si mescolano prepotentemente melodie e riff di chitarra granitici. Con la successiva “Stay Free” si entra nel campo funky, soprattutto per merito di uno Sherinian in stato di grazia. È proprio l’ex tastierista dei Dream Theater ad essere in questo lavoro il fulcro fondamentale grazie a delle soluzioni melodiche che si rivelano sempre di classe e intelligenti e che impreziosiscono tutti i brani presenti. Se “Red Sun” è in linea con le loro produzioni precedenti, grazie ad una solidità di insieme garantita da un Bonamassa che continui a non aspettarti suonare così arrabbiato, la successiva “Restless” è una piccola gemma blues che ti trasporta in territori lontani e sognanti. Con “Letting Go”, invece, si ritorna su temi tipicamente hard rock. Sherinian disegna, Bonamassa orna e Hughes ci mette la voce (che dono divino) e un ritornello che si conficca nel cervello e non ne vuole sapere di uscire. La seconda parte del disco mantiene un livello più che soddisfacente. Probabilmente “Skyway” si rivela la track più debole del lotto, surclassata dalla potenza di “You’re Not Alone” che è una delle cose migliori mai scritte dal quartetto. In ogni lavoro dei BCC non manca una traccia cantata da Bonamassa. In questo caso abbiamo “Love And Faith” che è una sorta di omaggio a “Kashmir” dei Led Zeppelin, grazie alle tastiere del solito Sherinian in primissimo piano. Nel finale “Too Far Gone” ci fa capire che un certo tipo di hard rock alla Whitesnake e Thin Lizzy, fortunatamente, non morirà mai, mentre la conclusiva “The Open Road” è un modo fantastico per mettere il punto conclusivo ad un disco di purissima classe e qualità. Lo hanno scritto quattro signori che non devono dimostrare più nulla e niente a nessuno. Chissà se future leve saranno in grado di fare lo stesso.. Ai posteri l’ardua sentenza.