Il ragazzo del Michigan, attivo nel frattempo con i progetti Creep Show e Midlake, ha imparato a mentire e nelle sue canzoni il funk ha ormai sostituito il folk e la sua voce enorme è spesso filtrata con l’uso del vocoder. Non sembra quasi di trovarsi al cospetto dell’autore di ‘Queen of Denmark’, ma la sua è stata un’evoluzione sistematica e scevra da compromessi. Le collaborazioni si sono susseguite, da John Congleton a Cate Le Bon, e si è lentamente arrivati ad un sound estatico e travolgente, capace di esaltare ancora di più le capacità vocali fuori dal comune di un genio assoluto del music business. ‘The Art Of The Lie’ è stato prodotto da Ivor Guest e registrato con il chitarrista Dave Okumu, il bassista Robin Mullarkey ed il batterista Seb Rochford ed il risultato è spiazzante fin dai primi minuti. L’elettronica ricopre un ruolo fondamentale (‘All That School For Nothing’) e Grant cita i Soft Cell almeno quanto i Cabaret Voltaire, costruendo architetture melodiche imponenti (‘It’s A Bitch’) per poi sporcarle o addirittura distruggere in nome di un approccio live e di una tendenza alla sperimentazione ed all’avanguardia che in pochi possono vantare. Anzi, vi dico una cosa.. Questo è uno dei dischi più commerciali di sempre tra quelli che possono essere definiti avanguardistici. ‘Mother And Son’ e ‘The Child Catcher’ simboleggiano il cambio di direzione sonora, ma in scaletta trovano spazio passaggi oscuri come ‘Marbles’ o ‘Laura Lou’. Un disco ballabile e divertente, da gustarsi ai festival anche se poi, come sempre, ameremo vedere questo colosso americano innamorato dell’Islanda seduto ad un pianoforte o regalarci brividi su brividi con una strumentazione essenziale.