Nell’attuale panorama dell’alternative rock, i Metz ricoprono un ruolo sempre più importante. Con il passare degli anni si sono trasformati da gruppo di nicchia a vera e propria colonna portante di un sound che paga dazio, in maniera sostanzialmente identica, ad hardcore e metal, dando origine ad una sorta di crossover molto particolare. Probabilmente, con questo nuovo “Up On Gravity Hill”, il trio canadese ha spostato le sue coordinate verso un suono più accessibile, in cui la componente melodica ha assunto un rilievo di primissimo ordine. Se proprio vogliamo trovare un punto di contatto con qualche band del passato, questo loro nuovo lavoro si avvicina per stile e impatto ad “Antenna” dei Cave In, album che, però, fece non felicissimi i fan della prima ora degli americani. Ritornando ai Metz, il biglietto da visita che ci propongono è di tutto rispetto, perché una traccia come “No Reservation/Love Comes Crashing” ha tutto per essere definita come un vero e proprio capolavoro. Le componenti hardcore si mescolano con dei giri melodici importanti, dando origine ad una canzone che si lascia ascoltare con assoluto piacere. Poi c’è “Glass Eye”, introdotta da un giro di batteria identico a quello di “Song 2” dei Blur. Chiaramente il pezzo si dipana su territori angusti e spigolosi con i tre che sembra vogliano far implodere il brano senza cercare un’apertura in sede di ritornello che tutti si aspetterebbero e che, invece, mai si troverà. I riff di chitarra sono sempre claustrofobici, come dimostra la ficcante “Entwined (Street Light Buzz)” che è un omaggio alla scena newyorkese di primi anni novanta. Altra traccia tagliente è “99” che ricorda certe cose dei Jesus Lizard. La seconda parte dell’album non si discosta dal lato A. Troviamo momenti minimali, ma molto interessanti (vedi “Superior Mirage”) che si alternano ad altri più da scorribanda (“Never Still Again”) che hanno al loro interno un qualcosa che rimanda al mondo dei Therapy? di inizio secolo. Insomma, la qualità del lavoro è molto alta ed ha certificarlo ci pensa la conclusiva “Light Your Way Home”, puro spaccato low-fi che ci riporta indietro con la mente a quei Pavement, mai troppo apprezzati dal grandissimo pubblico, ma che hanno lasciato un segno indelebile nella musica dei giorni nostri.