Nel corso degli anni il post grunge è stato oggetto di tante valutazioni. Nonostante molti gruppi si siano arricchiti, e non poco, con la riproposizione di certe sonorità cupe e dure, la critica più snob ci è andata giù duro, bollando quasi sempre gli artisti che hanno strizzato l’occhio a Seattle come ripetitivi, poco originali e senza idee. Quando si spara nel mucchio il problema è che si colpiscono anche personaggi che non lo meriterebbero, perché basterebbe un minimo di onestà intellettuale per capire che non tutto è da buttare. Tra coloro che andrebbero salvati da gogne e giudizi impietosi, ci sono sicuramente i sudafricani Seether, veterani del genere, che sono arrivati con “The Surface Seems So Far”, al loro undicesimo album. Nonostante i vari cambi di line up che ne hanno condizionato il percorso, il quartetto non si è mai perso d’animo e con quest’ultima fatica conferma tutto quanto già si conosceva di loro. Il modo suonare è sempre il medesimo, ovvero chitarre ribassate alla Staind, voce molto simile a quelle di Maynard Keenan dei Tool e Aaron Lewis, e melodie che si aprono all’interno dei brani, conferendo agli stessi un tono quasi sempre malinconico e ricco di pathos. Le varie “Judas Mind” o “Illusion” rappresentano il giusto bignami di quello che già si conosceva a monte, ovvero rabbia e melodia che si uniscono in un solo corpo rendendo corposo un sound greve e pieno di riferimenti a Tool ed Alice in Chains. Non ci sono break sui temi noti, ma si rivelano di rilievo pezzi quali “Try To Heal”, ottima nello spezzare al suo interno le fasi dure con quelle più morbide, e “Lost At Control” che richiama alla mente gli intramontabili Black Sabbath. Per il resto il gruppo viaggia con il pilota automatico, perso tra autocitazioni come “Dead On The Vine” e momenti viaggianti rappresentati da “Walls Come Down”. Insomma, “The Surface Seems So Far” è il classico disco che ci si poteva aspettare dai Seether; ovvero melodico e greve, due crismi che appaiono incorruttibili per gente come loro.