La competizione all’interno della scena metalcore inglese si è accesa ormai da qualche anno, spingendo ad alti livelli pure formazioni che in epoche diverse sarebbero rimaste invischiate nella melma underground. Di colpo ci siamo trovati una manciata di dischi da consumare, quando per anni non era uscito nulla di interessante. Gli Heriot sono uno di quei gruppi che è riuscito a smuovere qualcosa, riuscendo tra l’altro ad attrarre sia i puristi del metal e dell’hardcore sia i più giovani interessati in misura maggiore alla nuove sperimentazioni in ambito metalcore e deathcore invece che ai vecchi valori. Già in passato, soprattutto con il terzo EP su Church Road, la band guidata da Debbie Gough – spettacolare in ‘At The Fortress Gate’ . aveva dimostrato di sapere il fatto suo ma col presente esordio su lunga distanza, co-prodotto da Josh Middleton (Sylosis) e mixato da Will Putney (Fit For An Autopsy), è riuscita ad evolversi e colmare il gap che la distanziava dai riferimenti massimi del movimento. Le atmosfere sono maledettamente oscure, le ritmiche selvagge come quelle degli Employed To Serve e ogni pezzo si fissa in testa nonostante non sia certo commerciale o accessibile. Imperdibili l’iniziale ‘Foul Void’, ‘Opaline’, singolo che affronta la necessità di accettare il fatto che a volte si debba misurarsi con la verità e sottolinea la necessità di fidarsi del proprio istinto e di perdonare se stessi per le volte in cui non ci si è riusciti in qualcosa, e ‘Lashed’, in subdolo bilico tra sludge e industrial.