Non è mia abitudine leggere il lavoro dei colleghi e ancora meno delle persone che millantano di essere giornalisti e scrivono di musica poggiandosi su piedistalli inventati però stavo completando questa recensione quando mi sono imbattuto per caso nell’articolo di un’altra webzine. Sono rimasto allibito. A quel punto ne ho cercate altre in rete, sia su siti italiani che su siti stranieri, e ho deciso di aggiungere questa intro. ‘The Last Will And Testament’, concept commovente ed in assoluto la più pregevole uscita di Reigning Phoenix Music, non è solo un grande disco. É un grande disco degli Opeth, una delle poche formazioni che ha saputo sul serio cambiare il metal estremo. É un disco che non vuole essere etichettato. Non ne ha bisogno, semplicemente perché gli Opeth sono di un’altra categoria e se ne fregano, da tempo immemore, di generi, stili, case discografiche, vendite e social network. Mikael Åkerfeldt si conferma un musicista immenso e una mente acuta, d’altra parte non è da tutti potersi permettere di collaborare alla pari con Steven Wilson, e sa fare ruggire la sua Fender Telecaster come un tempo. È tornato a regalarci parti profonde in growl e ha saputo spingere gli altri membri in un limbo di libertà assoluta, laddove il prog e il death possono convivere assieme a retaggi folk, jazz e classic rock. Gli arrangiamenti sono maestosi, i riff enormi e gli archi utilizzati in maniera trionfale, sebbene l’atmosfera sia spesso cupa e decadente, e tante soluzioni del precedente ‘In Cauda Venenum’, edito cinque anni orsono da Nuclear Blast, sono state evolute a dimostrazione che la band svedese non si è mai fermata o accontentata del successo ottenuto. Sarà che è passato da Paradise Lost e Bodom After Midnight, ma personalmente adoro la tecnica di Waltteri Väyrynen e, senza togliere niente a chi l’ha preceduto, la sua presenza aggiunge senza dubbio qualcosa al materiale. Mentre trovo azzeccato il featuring di Joey Tempest degli Europe, l’unico pezzo che non mi ha convinto appieno è quello con Ian Anderson degli Jethro Tull. Troppo scontato e adagiato sulle sue corde, quando invece tutto il resto è pensato per stupire. Un caso isolato perché la scaletta è impressionante e ogni movimento è pianificato per ampliare l’eco del precedente e preparare l’ascoltatore alle sorprese seguenti. Fino a che non ci si imbatte in ‘A Story Not Told’ e si comprende il motivo per cui gli Opeth sono ancora venerati a quasi trent’anni di distanza da un capolavoro come ‘Morningrise’. Quel disco ha cambiato la mia vita e posso dirvi, senza paura di essere smentito, che ‘The Last Will And Testament’ non sfigura al suo fianco, così come non sfigura se accostato ad altre gemme discografiche quali ‘Blackwater Park’ o ‘Heritage’. Sono gli Opeth e dobbiamo solo ringraziare il cielo che siano ancora tra di noi.