Dare una definizione precisa ai Motorpsycho è davvero difficile, se non impossibile. Il sound dei norvegesi è troppo vasto per poter essere inquadrato nella giusta maniera. Nella loro carriera hanno spaziato su più fronti e lo hanno fatto sempre con un’integrità artistica che in pochi davvero si possono sognare di eguagliare. Fatta tale premessa possiamo affermare che, dopo un paio di album molto ostici che erano stati scritti in piena pandemia, questo nuovo capitolo segna un ritorno verso le sonorità tipiche degli anni sessanta /settanta, dove oltre all’improvvisazione in stile Grateful Dead (vedi l’iniziale “Lucifer, Bringer Of Light”), viene perseguito molto bene il concetto di canzone nell’accezione più tradizionale del termine. Chiaramente in tutto questo, le influenze dei maestri del passato sbocciano come fiori a primavera, a partire dall’acustica “Laird Of Heimly” che ha dei chiarissimi riferimenti ai Led Zeppelin più bucolici (quelli, per intenderci, del terzo meraviglioso disco). Poi c’è l’hard rock di matrice Blue Cheer che ritroviamo in tutto il suo splendore nella successiva “Stanley (Tonight’s The Night)” che ha ottime aperture melodiche in sede di ritornello. La produzione, molto old style, regala al platter una patina vintage che non può passare inosservata e che ci sta tutta quando ci si imbatte in tracce come “The Comeback”, intrisa di venature hard-blues alla Cream, o “Bed Of Roses”, dominata dal mellotron e dalla psichedelia che tanto andava di moda nella Londra della seconda metà degli anni sessanta in locali come l’UFO. Poi c’è l’ampio spazio che si deve concedere all’improvvisazione che è prorompente in tutta la sua veemenza in una suite come “Balthazaar” e nella lunghissima “Neotzar (The Second Coming”) che, con i suoi oltre ventuno minuti, ci riporta ad un certo tipo di prog degli anni settanta. Insomma, il minestrone preparato dai Motorpsycho è multiforme o multietnico, usate voi l’aggettivo più consono, ma non per questo è meno buono di altri che siamo costretti a mangiare, perché le cose girano in un certo modo. Sul tramonto del disco appare la solare “Core Memory Corrupt” che ci fa battere il piede sul pavimento e che fa da prologo ad un’altra cavalcata da west coast come “Three Frightened Mokeys”. A chiudere questa pietanza abbondante, ma non pesante ci pensa “Dead Of Winter”, di puro stampo Neil Young, che risulta, forse, l’episodio più easy listening di un disco che va preso a piccole dosi, ma studiato con moltissima attenzione.