Ci sono pochi dubbi sul fatto che la musica islandese stia vivendo un momento speciale dopo il clamore suscitato in periodi diversi da Björk e Sigur Rós. Nel giro di qualche mese i migliori artisti originari di questo ameno e fantastico luogo che non sembra appartenere al pianeta sono tornati nei negozi con album che manifestano un’urgenza compositiva sbalorditiva oltre al talento dei singoli riconosciuto in ambito internazionale. Prim’ancora di ascoltare ‘Once In A Long, Long While...’ di Low Roar e togliere dallo stereo i nuovi lavori di JFDR, Vök, Fufanu e Ásgeir vengo travolto dal successore di ‘Ask The Deep’ e faccio veramente fatica a replicare con parole. Sono quei casi in cui tutto pare mediocre o inadattato a descrivere emozioni tanto forti. Sóley Stefánsdóttir è da tempo una delle cantautrici più apprezzate in patria per la sua versatilità e una completezza invidiabile. A ciò si aggiungono una timidezza ed un apparente nervosismo che rendono dolce anche i passaggi musicali più oscuri e legati ad un’impostazione classica. Stavolta l’ex Seabear – da poco ricongiunta con Sin Fang per ‘Random Haiku Generator’ e ‘Wasted’ – si è mossa in una direzione più positiva e ottimistica senza però rompere i legami col passato ("Did you see the stars? Did you see the sun come up? You can find me in the flowers, you can find yourself some peace.."). Le due qualità maggiori di ‘Endless Summer’ sono l’imprevedibilità degli arrangiamenti e la capacità di trasportare in uno studio di registrazione, ambiente solitamente freddo e ostile, le atmosfere sensuali e intime dei suoi concerti. Per chi, come il sottoscritto, l’ha vista praticamente in tutte le situazioni possibili (Harpa, Mengi, KEX, piccoli bar e grandi arene, di fronte ad un piano e qualche distorsore ma anche in versione più rock e moderna) non è una sorpresa ma certo tracce come ‘Never Cry Moon’ e ‘Traveler’, completate ai Figure 8 di Brooklyn con Albert Finnbogason e in seguito masterizzate da Francesco Donadello a Berlino, rappresentano vette espressive mai raggiunte in precedenza. Un’ascesa continua, un processo in cui Sóley ha preso sempre più consapevolezza delle proprie doti e, in parallelo, smarrito qualunque interesse nel rimanere catalogata in un genere piuttosto che in un altro. ‘Endless Summer’ potrebbe essere infatti classificato come indie folk o art rock, come post rock o musica da camera, e nessuno potrebbe obiettare alcunché. La verità è che Sóley ha saputo distinguersi in un panorama esaltante ma spesso monotono come quello islandese e, album dopo album, ritagliarsi uno spazio unico e elitario in quello estero. ‘Úa’ cita i múm, ‘Sing Wood To Silence’ si erge maestosa su flauto e archi, mentre ‘Grow’ richiama alla mente la danza decadente di Agnes Obel, anche grazie all’immaginario creato dal video di Samantha Shay. Sacralità e incandescenza, amore e passione, depressione e temperature sotto lo zero. In ‘Endless Summer’ c’è davvero tutta la nostra vita.