Quali sono gli eventi che hanno portato alla nascita della band ed alla crescita della chimica nella line-up attuale?
La band nasce da una convivenza “de facto” di chi suona gli strumenti con le corde, in quanto ai tempi dell’università si viveva e si suonava in casa insieme a Genova, la stessa città dove viveva il suonatore di pelli che è stato a lungo corteggiato prima di entrare definitivamente nella line-up attuale. Sembrerà scontato, ma la chimica è sempre cresciuta grazie al trascorrere insieme molto tempo, sia con gli strumenti che senza, condividendo quotidianità, gusti e amore per il cibo ipercalorico (soprattutto)
Cosa volevate cambiare o migliorare dopo ‘Fake’?
‘Fake’ è un disco di esordio, nato con chiare sonorità acustiche. Suonando molto insieme e facendo evolvere in sinergia il modo di suonare e di intendere la musica ci siamo accorti che era necessario un irrobustimento dell’aspetto ritmico, e un taglio più profondo dei brani, soprattutto nei testi. La cura nella stesura è aumentata molto, così come alcuni mal di testa per far “quadrare” tutto al meglio. Il miglioramento è sempre necessario, e riteniamo di aver fatto un grande passo.
In termini sonori cosa avete chiesto a Pietro Foresti? Perché ‘Roots’ è la sua migliore produzione a vostro parere?
Abbiamo incrociato la nostra strada con Pietro quando, a un anno abbondante da ‘Fake’, ci siamo resi conto che lo step-up che volevamo avere avrebbe richiesto una conoscenza approfondita di un mondo che avevamo appena assaggiato. Ci serviva qualcuno per indirizzarci nella stesura, per darci linee chiare senza intaccare la nostra libertà di scrittura. Lui su questo è stato impeccabile, chirurgico sia “a livello macro che a livello micro” (cit. P.F.). Il risultato è un disco potente, dalle sonorità distinguibili e facilmente ricordabili e allo stesso tempo assolutamente non banale.
C’è un pezzo chiave o comunque una traccia che rappresenta al meglio il sound attuale dei Roommates?
‘Roots’ è composto da 10 brani molto eterogenei, dalla potenza di ‘Second One’ alla profondità di ‘The Contract’, dall’essere ruffiano e accomodante di ‘Summit’ ai toni acustici e rassicuranti della title-track. Proprio ‘Second One’, non a caso, secondo brano del disco, rappresenta molto il nostro impatto sonoro, soprattutto in live.
Ispirarsi alle radici ed ai sette vizi capitali non è da tutti. C’è un concept vero e proprio dietro all’album oppure solo una sorta di filo conduttore tra i pezzi?
Pescando anacronisticamente da periodi in cui non eravamo ancora nati, siamo approdati al concept. E’ stato un iter piuttosto lineare: abbiamo pensato di descrivere la condizione attuale di una società schiacciata dal “peccato” inteso come una condizione che pesa sulla morale (senza neanche sfiorare una ideologia religiosa) dell’individuo, ammorbato da scelte che ne condizionano l’esistenza. Siamo passati tra i sette vizi, in un ipotetico viaggio simile a quello descritto dal “Divin Poeta” che vede come unico modo per espiare la necessità di conoscere il peccato stesso e accettarlo. Le radici, simbolo a cui siamo legati vista la loro importanza per la nostra terra d’origine, rappresentano i legami con le persone care, e sono la base della forza che ci permette di andare avanti superando i pesi che ci rallentano il cammino.
Chi ha girato il videoclip di ‘Deep Feeling’? Dove si sono svolte le riprese? Qualche aneddoto divertente riguardo lo shooting?
‘Deep Feeling’ e ‘Pride’ sono due parti della stessa storia, sono stati girati da Project Media Service, una azienda di Bordighera. Abbiamo girato tra Imperia e Ventimiglia, varie location di interni ed esterni. Le riprese della parte suonata sono state fatte in un parcheggio sotterraneo, dove un’auto non nostra correva il rischio di rimanere nelle inquadrature. Tale auto venne spostata di 3 metri con una fatica immane e nell’esatto istante in cui ricevemmo l’ok dal regista, arrivò il proprietario (fischiettando, il maledetto) per portarla via, con vago imbarazzo dei presenti e robusta generazione di parole brutte nelle menti (e non solo) di ognuno.
Sia ‘Deep Feeling’ che ‘Second One’ mi hanno ricordato i Godsmack ma al di là dei nomi il vostro sound sembra piuttosto legato agli anni ‘90 o sbaglio?
I 4 musici, presi singolarmente, sono legati a epoche e a sonorità differenti che spaziano tra l’acustico di John Butler e l’aggressività di Zakk Wylde, tra i toni leggeri e avvolgenti di Dave Matthews e gli schiaffi sonori degli Slayer. Insieme abbiamo sonorità che prendono mattoni dalla storia del rock tra gli anni ’70 e i ’90, provando a spingerci di più nei ’90 proprio per motivi anagrafici. Resta comunque uno studio individuale e di band dei suoni in modo che prima di tutto “suonino” bene insieme, senza pensare ai riferimenti esterni.
Avere un batterista come Alessio è un sicuro punto di forza anche se lui deve la sua fama soprattutto al metal. Dovete contenerlo in sala prove o quando scrivete gli arrangiamenti dei pezzi?
Un punto di forza inequivocabile di Alessio è la sua capacità di adattare il tocco e l’intenzione alla situazione con grande professionalità, questo rende semplice scrivere
brani con lui in quanto la sua vena metallara è molto decisa e affermata, ma la sua cultura musicale e il suo gusto gli permettono di non essere incastrato in un genere senza poterne uscire. Bisogna contenerlo alle volte in quanto molto, molto, molto testardo, ma questo non deriva dalla sua vena metallara.
Quali sono i vostri piani per promuovere l’album, una volta finita l’emergenza sanitaria?
L’emergenza sanitaria “per musicisti” è particolarmente dolorosa, in quanto ad oggi non se ne vede una fine per quanto riguarda i live che probabilmente non avverranno nel 2020, quindi la promozione di ‘Roots’ sarà centrata sugli aspetti social e on-line, tra sito, il nostro blog e le varie pagine e canali Facebook, Instagram, YouTube e Spotify. In questo periodo stiamo producendo molto materiale sia inerente al disco che ad altri progetti paralleli e li stiamo presentando sulle varie piattaforme. Il “dopo” è ancora nebuloso, possiamo però tranquillamente dire che sarà centrato sui live, tanti, più possibili, per sfogare questo lunghissimo e inaspettato periodo di compressione.
Siete partiti come trio acustico e col progetto Room120 avete dimostrato notevole duttilità. Cosa dobbiamo attenderci da un live dei Roommates?
Un live deve essere prima di tutto coinvolgente, deve far si che il pubblico possa condividere le sensazioni di chi è sul palco. Questa è la nostra idea di partenza, lo scopo è far sentire bene chi è con noi, non solo “eseguendo” dei brani. Per fare questo si punta a coinvolgere il pubblico sia durante i brani che tra un brano e l’altro, mantenendo sempre alta l’attenzione sui musici. Si deve rimanere stampati negli occhi e nelle orecchie di chi si ha davanti. Tutto qui.
Quali sono i dischi rock o metal italiani più interessanti usciti nell’ultimo periodo?
Dopo lunga consultazione dei membri della band ci sentiamo di consigliare semplicemente ciò che ascoltiamo di “nato in italia” in questo momento. I primi sono i Five Ways to Nowhere che sono usciti da pochissimo con ‘Bite Hard’, una serie di sberle sonore di tutto rispetto, i secondi sono i Kaos India con ‘Wave’, un disco più raffinato e gentile, è uscito ormai 1 anno fa, ma siamo sicuramente nell’ultimo periodo, infine bariamo brutalmente indicando il prossimo disco di LambStone, in uscita a breve in quanto l’abbiamo già ascoltato ed è letteralmente una bomba.