Come al solito l’ex Sugarcubes stupisce, divide e ammalia. ‘Utopia’ è l’ennesimo disco che farà discutere, fin dalle foto promozionali in cui indossa uno strap-on e la sua immagine è fuorviata da tecniche grafiche in uso negli anni settanta o anche prima, e che necessita di numerosi ascolti prima di sviscerare tutte le sue sfumature oscure. Un disco subdolo eppure leggiadro, in cui la sua voce fantastica emerge più che in ‘Vulnicura’, ‘Blissing’ e ‘The Gate’ ne sono l’esempio, ma che non concede tregua alla sperimentazione, da tempo caratteristica fondante dell’opera dell’islandese. L’anno passato ho avuto la fortuna di assistere alla sua esposizione digitale ed al concerto grandioso all’Harpa di Reykjavík, nel corso della diciottesima edizione di Iceland Airwaves, e in tale occasione ho capito cosa significa essere la Regina di un Paese, essere la sola artista in grado di far fermare tutti, di piegare al suo volere stampa e televisione, nonostante un atteggiamento distaccato e a volte scorbutico. Una musicista che non ha bisogno di ulteriori spiegazioni e che ha trovato con Alejandro Ghersi, autore di recente dei bellissimi ‘Mutant’ e ‘Arca’, un dialogo comune, un outlet espressivo, tecnologico ma legato ai vecchi valori, in grado di tagliare in due la sparuta concorrenza in ambito elettronico e alt-pop. Oltre settanta minuti nei quali il concetto di utopia viene affrontato sotto più punti di vista, su tutti quello politico e quello ambientale. Da brividi l’inizio di ‘Arisen My Senses’, la suite ‘Body Memory’ e ‘Tabula Rasa’, quattro minuti in apparenza interminabili in cui Björk cambia non so quante volte timbro vocale pur restando fedele all’atmosfera onirica e avanguardistica in sottofondo. Lei stessa ha definito ‘Utopia’ come un album che possiede la medesima visione di Tinder, l’app che permette di fissare un incontro con qualche foto e pochi click. La connessione è quella. Estremamente sfuggente.