Sembra che gli Alter Bridge abbiano deciso di percorrere sempre la stessa strada che gli consente di portare in dote un cospicuo numero di vendite ai loro dischi che incominciano ad essere fatti, però, con la carta carbone. Vi è molta differenza con i lavori degli esordi e quella brillantezza che si era trovata nei primi quattro platters pare essersi smarrita, sebbene il precedente “Walk The Sky” avesse, comunque, dato dei segnali di risveglio interessanti. “Pawn & Kings” è un album sontuoso per quanto riguarda i suoni che a volte sfociano in un barocchismo di sorta che li fa apparire come dei Muse più pesanti ed alternativi. Le canzoni, purtroppo, sembrano somigliarsi le une con le altre e questo aspetto porta ad annoiarsi immediatamente. Certamente il duo Kennedy – Tremonti non è che si sia letteralmente rimbambito all’improvviso, perché il talento fortunatamente ancora esiste e quindi ogni tanto arrivano dei sussulti che ti fanno balzare dalla sedia. Ad esempio, “Last Man Standing” è davvero un pezzo che non avrebbe sfigurato in “ABIII” o “Fortress” per bellezza e capacità melodica. Il singolo “Silver Tongue”, pur essendo di impatto, ha un ritornello che pare essere stantio. Un po' meglio va con la lunga title track che è una cavalcata vecchio stile, ma che perde decisamente il confronto se la si mette al confronto di un classico immortale come “Cry Of Achilles”. L’episodio in cui è Tremonti a cantare (“Stay”) pare essere uscito direttamente da uno dei suoi lavori solisti, mentre “This Is War”, lodato dai fans in maniera, a volte, sconvolgente è pura potenza, ma nulla di più. “Sin After Sin”, che ricorda il Kennedy solista anche se in versione metal, è un buon esercizio di stile in cui vi è la contrapposizione tra parti rallentate ed arpeggiate e l’aspra forza di un ritornello che si inserisce in una trama molto alla Black Sabbath. Va decisamente meglio con la malinconica “Fable Of The Silent Son” che fortunatamente fuoriesce dal seminato classico e risulta una delle migliori canzoni scritte negli ultimi anni dagli Alter Bridge, grazie ad un’interpretazione da brivido di Kennedy che, piaccia o non piaccia, rimane il miglior cantante dell’ultimo ventennio. Ci sono poi “Dead Among The Living”, “Holiday” e “Season Of Promise” a chiudere il lotto. La prima entra subito in testa riportando alla mente, pur non eguagliandola, la fantastica “Ghost of Days Gone By”. La seconda è in puro Tremonti style, perché rocciosa e aggressiva a differenza della terza che ha una buona struttura, ma ricorda i Muse per i suoni. Ricapitolando: ci sono buoni spunti che si contrappongono ad altri che non riescono ad entrare, nonostante i numerosi ascolti a cui ci siamo sottoposti per la stima che si nutre verso una band che si è davvero fatta da sola. Risultato finale? Sei di stima e un invito a riposarsi di più con la speranza che si entri in studio nuovamente quando c’è l’ispirazione dei tempi migliori e non perché si deve timbrare un cartellino come si lavorasse in un ufficio pubblico.