Ormai, e non è una novità di oggi, la grandissima parte dei gruppi che si dedica ad un hard rock di tipo prettamente melodico sembra essere fatta con lo stampino. Il suono, le canzoni e le tastiere suonano sempre uguali e ci ricordano come questo genere sia diventato una sorta di stagno dove è davvero difficile trovare innovazione e freschezza. In questo clima di assoluta calma piatta si collocano anche gli Eclipse, giunti al nono album di una carriera che non conosce, fortunatamente per loro, ostacoli. Anche “Megalomanium”, così come capitato in passato con i precedenti lavori, si caratterizza per avere canzoni possenti, dai cori prepotenti (vedi “Got It”), epiche nella sostanza (“Anthem” e “So Long Farewell Goodbye”), ma che sono un qualcosa che potrete ritrovare anche in tutto quello che gli svedesi hanno messo sul mercato dal 2001 sino ad oggi. È come se si incappasse in una sorta di fiera dello scontato, ma che chiaramente può piacere a chi è appassionato di un genere come questo che sembra godere di una salute buona e, soprattutto, fortissima. Il problema, a nostro avviso, è che se ci si imbatte in canzoni strutturate bene come la solida “I Don’t Get It”, ma che si sviluppano ancora su cori tipicamente vecchi di trent’anni, ci si rende conto che nulla ti possa restare da qui a qualche mese. Manca, ad esempio, l’inventiva clamorosa di gente tipo i The Night Flight Orchestra che hanno capito che per essere originali, pur guardando clamorosamente al passato, dovevano fondere un genere come questo con la disco music di fine anni settanta, riuscendo in qualcosa a cui nessuno aveva lontanamente osato pensare. Qui, al contrario (sappiamo che ci prenderemo gli improperi dei fans “duri e puri” dell’AOR), non c’è nulla di nuovo, ma solo composizioni di mestiere (tipo “The Broken” e la trita “High Road”) che le si possono trovare dovunque da parte di chi frequenta questi territori. Meglio, a questo punto, prendere qualcosa degli anni ottanta (Dare, House of Lords, Giuffria, tanto per citare qualche nome importante) e metterla sul piatto o nel lettore. Almeno si è consci di avere a che fare con materiale originale e fresco che aveva un senso quaranta anni fa. Ad ogni modo, “dove c’è gusto non c’è perdenza” e quindi va bene anche così.