Tramite un amico in comune, musicista anche lui, ho avuto la fortuna di conoscere Linnéa Olsson di persona, in occasione della registrazione di ‘Counterfeit Fire’ dei Children e devo ammettere che l’impressione che mi ero fatto dell’ex-Oath in fase di intervista, sia ai tempi della promozione di ‘Dreamcrash’ dei Grave Pleasures’ sia quando è uscito ‘Mercy Machine’, è stata confermata nella sua totalità. Linnéa ha uno sguardo che ti brucia, è punk dentro e fuori dal tempo. Oltre ad essere una musicista straordinaria possiede una capacità innata di riflettere su quello che la circonda e tradurla in un riff letale o in un testo che fotografi con esattezza quel disagio. Quello che inizialmente era nato come progetto personale, come sfogo dopo l’esperienza andata male con Johanna Sadonis e numerose prove da turnista, adesso è un gruppo a tutti gli effetti, col contributo unico della bassista Olivia Airey (Hybris) e dal batterista Uno Bruniusson (In Solitude) e la scaletta è costruita su crescendo emotivi spaventosi ed un ibrido tra post-punk e crossover rock che dilania fin dai primi minuti. ‘Hunger’ ha necessitato di un periodo più lungo di elaborazione a causa dei problemi fisici della leader, che ha dovuto operarsi al collo ed è stata diverso tempo senza sensibilità al braccio sinistro. Questo le ha impedito di suonare a lungo, ma non ha inficiato minimamente la qualità del songwriting che al contrario non era mai stato tanto efficace. Si passa da momenti di puro punk ad altri più riflessivi ed atmosferici, con un carico di tensione enorme e progressioni di riff che in tour mieteranno vittime. Quello di ‘Hunger’ è un grido primordiale, che solo per comodità prende le sembianze di una bella donna in reggiseno e calze, ripresa da Sarah Ben Hardouze. ‘Scandinavian Hunger’ e ‘Looking Back At You’ sono due pezzi clamorosi, ‘Archer’ richiama alla memoria i Beastmilk mentre ‘LBD’ e la conclusiva ‘Parasite’ superano i sei minuti di durata mostrando parvenze più sperimentali e progressive. Le cadenze noise e dark di ‘This Shadow’ hanno invece trovato l’accompagnamento perfetto nelle immagini di Tekla Valy. L’album è stato registrato e mixato a Berlino da Ben Greenberg (Metz, Portrayal Of Guilt) e non ha niente di mainstream. Scordatevi infatti suoni puliti, esercizi di stile o arrangiamenti per compiacere certe fasce di pubblico. Questo è un disco onesto, scritto col cuore, ribelle. Uno di quei dischi che non si trovano più in circolazione e proprio per questo da proteggere come una specie in estinzione. Dio voglia che i Maggot Heart esplodano a livello internazionale. Prima di tutto perché così avremmo il piacere di vedere il trio dalle nostre parti con una certa frequenza e poi perché significherebbe che c’è un po’ di giustizia nel mondo.