Una fama improvvisa raggiunta nei primi anni novanta grazie ad una canzone azzeccata (“Runaway Train”), un paio di dischi più che buoni, un leader bello e maledetto il giusto (Dave Pirner) e poi l’oblio, logico e consequenziale dopo che le luci sull’alternative rock si incominciarono a spegnere gradualmente alla fine del secolo scorso. È questa, in sintesi, la storia dei Soul Asylum, band americana di talento che oggi è ancora in giro, soprattutto negli Stati Uniti, e che continua a sfornare album che, sinceramente, stanno tutti colpevolmente passando sotto traccia. È di questi giorni l’uscita di “Slowly But Shirley”, prodotto da Steve Jordan, attuale batterista dei Rolling Stones e già nelle vesti di producer di gente come Keith Richards o John Mayer. Il lavoro, interamente registrato in presa diretta a Minneapolis, ci regala una band matura che suona un rock alla Tom Petty, nella piena tradizione americana dei rockers che sono cresciuti da ragazzi ascoltando gente come il suddetto biondo chitarrista, il Boss e Bob Seger. Pertanto abbiamo un pugno di canzoni aggressive il giusto (vedi “The Only Thing I’m Missing”, “High Road”), ma che hanno poco da spartire con passato più glorioso dei Soul Asylum. Sembra quasi di ascoltare due gruppi completamente differenti, ma è così che vanno le cose. Si potrebbe parlare di evoluzione o involuzione a seconda dei punti di vista, ma con gli anni è normale che si cambi. Quello che rimane immutato è la capacità di Pirner di scrivere composizioni che sanno farsi apprezzare con il passare degli ascolti e questo aspetto non può essere trascurato. Qui dentro abbiamo, per esempio, i classici pezzi “alla Soul Asylum” come “Makin’ Plans”, una ballad laconica e melodica allo stesso tempo che avrebbe trovato spazio nelle classifiche di mezzo mondo se fosse uscita negli anni d’oro. Interessanti risultano anche tracce quali l’intima “Freak Accident” e l’oscura “Waiting On The Lord” che hanno la capacità di tirare fuori delle melodie che si possono mandare giù a memoria. Non va dimenticato l’ottimo esperimento soul-blues rappresentato da “Sucker Maker”. Insomma, Pirner è il solito autore che scrive bene, ma al quale è mancato qualcosa per entrare nell’Olimpo a differenza di altri colleghi del suo periodo che ce l’hanno fatta. In soldoni, “Slowly But Shirley” è un disco soddisfacente, che si fa ascoltare e che cresce ascolto dopo ascolto. La qualità è indubbia, anche se la sensazione che rimane è che un lavoro del genere tra qualche tempo sarà dimenticato o sarà poco noto alla massa e questo rappresenterà il suo vero peccato di non colpevolezza che si porterà con sé.