‘A Grave Is A Grim Horse’, la traccia omonima che apre il disco, mette in mostra uno Steve Von Till dall’incedere fiero, anche grazie alla strumentazione, che, nel caso specifico, comprende batteria, basso e chitarra, oltre al banjo, ma soprattutto orgogliosamente statunitense, per tradizione radicata nel passato del blues qui assai rallentato. Nelle restanti composizioni, pur non mutando mood, sono però le sfumature musicali e interpretative a cambiare, sia in considerazione del fatto che a brani originali si alternano rifacimenti di canzoni altrui (Nick Drake, Townes Van Zandt, Mickey Newberry e Lyle Lovett), mentre ‘Valley Of The Moon’ trae ispirazione dal libro e dalla vita di Jack London, sia per la volontà di lavorare con diverse forme di cantautorato folk e al fine di palesare la sua abilità nelle vesti di compositore. La scelta è quella di riportare alla luce le proprie radici, non solo sonore, ma anche di proporre suoni che si pongano in sintonia con l’anima (magari tormentata, pur se sincera) dell’ascoltatore e che siano in grado di emozionare. Volendo osservare l’album da un punto di vista più “tecnico”, va annotato come la preponderanza delle trame sia sottolineata dalla presenza della chitarra, tanto elettrica quanto (più spesso) acustica, e dalla voce calda, vissuta e narrativa di Steve Von Till, ma non sono da trascurare gli arrangiamenti, specie quelli di violoncello, appropriatamente dispensati con oculata parsimonia e sicura efficacia, così come i dosati interventi di batteria. È un senso di malinconica bellezza ancestrale, pur se ambientata nel contemporaneo, quello che emerge da ‘The Acre’, ‘Looking For Dry Land’, ‘Western Son’ o ‘Gravity’ e che permea di sacro le tonalità espressive di ‘A Grave Is A Grim Horse’.