1) Life Wasted 2) World Wide Suicide 3) Comatose 4) Severed Hand 5) Marker In The Sand 6) Parachutes 7) Unemployable 8) Big Wave 9) Gone 10) Wasted Reprise 11) Army Reserve 12) Come Back 13) Inside Job
Songs
1) Life Wasted 2) World Wide Suicide 3) Comatose 4) Severed Hand 5) Marker In The Sand 6) Parachutes 7) Unemployable 8) Big Wave 9) Gone 10) Wasted Reprise 11) Army Reserve 12) Come Back 13) Inside Job
Ringraziamo di cuore i Pearl Jam, ma non ce n’era davvero bisogno. In effetti, eravamo già tutti a conoscenza di quanto fosse scaduta l’ispirazione di questa band negli ultimi dodici anni, senza avvertire la necessità che un mediocre disco auto-intitolato ribadisse il concetto e ci rinfrescasse la memoria. Sarebbe impossibile per chiunque, spiegare come gli unanimi consensi riscossi dai capolavori ‘Ten’ e ‘Versus’ siano gradualmente scemati con le successive pubblicazioni, senza tirare in ballo la pesante eredità artistica dei Mother Love Bone, di cui hanno beneficiato i primi due album e che è venuta a mancare, come la terra sotto i piedi, una volta esauriti i fondi di magazzino. Lascio ad altri il comodo lavoro d’incensare l’omogeneità dell’opera, sorta d’ipotetico excursus riassuntivo di una carriera peraltro altalenante. Da parte mia non posso che constatare come le classiche influenze del gruppo (Neil Young e The Who su tutte) si siano ormai aggravate al livello di febbroni da cavallo, tradendo una cronica mancanza d’idee solo parzialmente occultata da tanto sano mestiere. Ecco, ‘Pearl Jam’ è tutto qui: tredici spaurite canzoni che non dischiudono grossi spiragli ad una qualsiasi evoluzione in chiave futura, ma in compenso sembrano chiarire e ridimensionare in via definitiva l’identità della band più sopravvalutata del defunto sound di Seattle. C’è forse bisogno di specificare il suo nome?