In attesa di ascoltare ‘I, The Mask’ degli In Flames, che promette alquanto bene, i Soilwork immettono sul mercato un attestato di forza e la testimonianza dello strapotere in ambito swedish death, mettendosi peraltro alle spalle il problema della sostituzione di Dirk Verbeuren. Lasciate perdere la intro strumentale, che avrebbe potuto benissimo essere esclusa dalla scaletta, e fiondatevi immediatamente su ‘Arrival’, godete del tocco unico dell’ultimo arrivato Bastian Thusgaard e del cantato migliore da parte di Bjorn Strid dai tempi di ‘The Panic Broadcast’. Nelle liriche vengono sottolineate la natura fredda della nostra esistenza e la vulnerabilità a cui siamo soggetti in seguito ad una serie di irreparabili eventi catastrofici, nella vita reale e nella mente. Tutto ciò si adatta alla perfezione alle ritmiche forsennate ed all’evoluzione sonora degli svedesi che partendo da pietre miliari come ‘Steelbath Suicide’ e ‘Stabbing The Drama’ sono arrivati alla pubblicazioni di lavori in studio estremamente complessi, progressivi e melodici come ‘The Living Infinite’ e ‘The Ride Majestic’. Adesso quell’era è finita ed il Soilwork hanno tutta l’intenzione di inaugurarne una nuova, evitando di apparire come dei retrogradi e di esibire con inutile vanità i risultati raggiunti nell’ultimo lustro (richiamati solo nell’ottima ‘The Ageless Whisper’). Dal punto di vista strumentale molto ruota attorno a Sven Karlsson e David Andersson ma questo è forse il primo album nella loro carriera in cui il mixaggio è equilibrato in maniera equa al punto da apparire quasi maniacale. ‘Full Moon Shoals’ e ‘Witan’ sono due apici della scaletta ma i fan apprezzeranno pure la natura rock di ‘The Nurturing Glance’ e ‘The Wolves Are Back In Town’, destinate a fare sfaceli in sede live. Quando poi si ha la possibilità di invitare in studio personaggi del calibro di Tomi Joutsen degli Amorphis (‘Needles And Kin’) e Alissa White-Gluz degli Arch Enemy (‘Stålfågel’) allora è tutto più facile.