Terzo album per i texani che si sono messi alle spalle le sventure di ‘American Sun’, uscito pochi mesi prima della sospensione dell’attività live, compiendo delle scelte artistiche molto precise che potrebbero pagare a livello commerciale o viceversa affossarli. La prima riguarda l’approccio vocale, molto più radiofonico, ammiccante sia il nu metal di fine anni ‘90 che certo post-hardcore, e meno improntato sul rap metal degli esordi. A tratti AJ Channer usa anche l’autotune e infatti in rete sono apparse recensioni di metallari scandalizzati o giornalisti incapaci di gestire qualcosa del genere. Se tali persone ascoltassero davvero i dischi, e non mezza volta su Spotify, e soprattutto andassero ai concerti per capire il reale valore di una band probabilmente si leggerebbero meno sciocchezze. Chiusa la polemica, la seconda scelta artistica importante riguarda il guitar sound, palesemente influenzato dal djent e libero dalla devozione che ‘American Sun’ aveva nei confronti delle produzioni di plastica dei Five Finger Death Punch. D’altra parte Zoltan Bathoy li aveva messi sotto contratto quindi sarebbe strano il contrario. Stavolta Erik Ron (Godsmack, Issues, Bush..), confermato dietro la console, ha dato maggiore personalità al sound del gruppo, ripulendo la batteria e facendo in maniera che i passaggi più melodici emergessero con forza (‘Thousand Lifetimes’ e ‘World So Cold’). Personalmente amo sempre di più i frangenti in cui vengono fuori le influenze hip hop del cantante, ma l’equilibrio raggiunto è eccellente tanto che a tratti pare di trovarsi al cospetto di una versione più aggressiva dei migliori Sevendust. ‘Double Edged Sword’ e ‘8 Million Rats’ gli apici di una scaletta coraggiosa, in grado di far riflettere e ricca di aperture verso un futuro che potrebbe portare a breve un’altra svolta.