Le porte girevoli sono un’incredibile consuetudine e costante nella famiglia rumorosa e chiassosa dei The Dead Daisies. In pratica, con scadenza quasi semestrale, si registrano avvicendamenti su avvicendamenti all’interno di questa “squadra” con musicisti che vanno ed altri che vengono, neanche fossimo al calcio mercato. La band è una specie di cantiere aperto e tra i tanti cambi che si sono avuti nel corso degli anni quello che sicuramente ha destato più curiosità ha riguardato il ruolo del cantante. Prima John Corabi, poi il maestro Glenn Hughes e ora nuovamente l’ex Motley Crue, con quest’ultimo che si è ripresentato dietro al microfono dopo una girandola di sostituzioni che avrebbe fatto impallidire anche il presidente del Brescia Massimo Cellino, noto “mangia allenatori” per eccellenza. La presenza di Corabi ha fatto si che la band si discostasse dall’impronta data da Hughes negli ultimi dischi. Il sound del gruppo è ritornato decisamente più stradaiolo con la voce stridula del cantante che si sposa alla perfezione con le chitarre sempre precise di Doug Aldrich e David Lowy. Qui, all’interno di tutto il platter, si respira un’aria tipicamente AC/DC. I riff sono precisi e taglienti e le canzoni riportano indietro con la mente a ciò che furono gli australiani soprattutto nel periodo in cui avevano come leader il mitico Bon Scott. Le prime quattro tracce appaiono decisamente eloquenti e rappresentano alla perfezione ciò che sono i The Dead Daisies con Corabi, ovvero un’entità stradaiola sporca e molto cattiva. Ogni singolo pezzo, oltre a essere trascinante, ha una clamorosa melodia nei cori e nei ritornelli. “I Wanna Be Your Bitch” ci mette poco per entrare in testa, così come la titletrack. Ancora più spettacolare è “I’m Gonna Ride” che ha un’andatura viaggiante e piena di pathos. Una variazione sul tema è rappresentata da “Back To Zero” che sembra essere l’omaggio che i cinque vogliono dare agli Alice In Chains e, più in generale, alla scena di Seattle. Le atmosfere diventano improvvisamente plumbee e malate e non pare vero di ascoltare certe sonorità all’interno di un disco del genere. Poi si ritorna agli anni settanta con altri pezzi trainanti che arrivano sino all’immancabile ballata che porta il nome di “Love That’ll Never Be” che non dovrebbe avere difficoltà a tramutarsi in uno dei loro classici. Chiude questo ventaglio di rock’n’roll “Take My Soul” che, come dice il titolo, ha un’anima lontanamente soul. Insomma, in questo andirivieni di musicisti che sono i The Dead Daisies, quello che non manca è la qualità. Questi signori non inventano nulla, ma hanno la capacità di toccare le corde giuste di chi è cresciuto con il rock sano e stradaiolo degli anni settanta. Complimenti e lunga vita a voi.