Perdoniamo tutto a Mr. Schenker, anche il fatto di aver chiamato nel modo più pomposo e pretenzioso del mondo la sua band. E lo scusiamo soprattutto perché in questo tempio del rock ci sono lui, Herman Rarebell, Francis Buchholz, Doogie White e Wayne Findlay. Capirete che avere degli ex membri di Scorpions, Rainbow o Malmsteen da una certa sicurezza e permette di osare un po’ di più se quelle in mano sono le carte vincenti. A distanza di due anni dall’ultimo lavoro e sotto la supervisione di Michael Voss (questa volta solo come produttore) esce il secondo album con questa formazione e le aspettative dei fans più accaniti non sono state sicuramente disattese. Il disco è composto da dodici brani tiratissimi, con una sezione ritmica dinamica e incisiva supportata da un cantato in cui White sperimenta il suo particolare timbro vocale. La fa da padrone ovviamente il chitarrista teutonico che non si esime di sperimentare e apporre su ogni brano il suo marchio di fabbrica caratterizzato da uno shredding graffiante che sa essere versatile sia in pezzi melodici che in quelli più metal. Nell’insieme il disco non aggiunge né toglie niente alla discografia di Schenker e, anzi, i rimandi a sonorità legate a Black Sabbath, UFO e alle sonorità rock anni settanta e ottanta legate a Led Zeppelin e Deep Purple si fanno più accentuate se pensiamo a brani come 'Saviour Machine', 'Let The Devil Scream', 'Bulletproof' e 'All Our Yesterdays'. Curiosando sul web si possono trovare le setlist dei concerti fatti dal gruppo dopo l'uscita dell'album; fa pensare il fatto che su diciotto canzoni più della metà siano riproposizioni di canzoni di UFO e Scorpions. Evidentemente anche nei templi più maestosi si aggirarono i fantasmi del passato.