A tutti piace il successo. Essere riconosciuti per strada, accumulare denaro, raggiungere una posizione invidiabile nel settore che ci compete. Ci sono persone che non accettano compromessi ed altre che invece non nutrono alcuna vergogna nel vendersi al migliore offerente. Con il passare degli anni la musica degli inglesi si è fatta sempre più commerciale, priva di idee, piatta e noiosa e soprattutto, di fronte ad una crisi di identità quasi drammatica, sono peggiorate anche le performance dal vivo che inizialmente erano un vanto della band. ‘That’s The Spirit’ si muove verso territori alternative americani, magari servirà ad allargare la fanbase da quelle parti ma non sentivamo il bisogno di coretti pop e pezzi alla Fall Out Boy o alla Linkin Park da parte di un Oli Sykes che tecnicamente parlando vale un terzo dei frontman delle suddette realtà. Qualcuno dirà che ‘Drown’ e ‘Happy Song’ sono singoli moderni, sfaccettati e dinamici oppure che ‘Avalanche’ e ‘Oh No’ segnano una progressione netta rispetto agli esordi. A me sembrano solo pezzi da usa e getta nella quale è impossibile trovare il minimo aspetto interessante e lo spazio concesso alle tastiere di Jordan Fish mi pare davvero esagerato. Lo spirito che non ci piace.