Come si sta a San Francisco?
È completamente diverso qui. C’ero già stato in passato e quindi conoscevo bene l’area, ma viverci è tutta un’altra cosa. La prima esperienza era stata quando ero ragazzo e trasferirmi qui con tutta la famiglia è stato abbastanza complesso però ce l’abbiamo fatta e ormai sono dieci anni. Per ora resisto. La mia azienda è illuminata e di conseguenza ho più tempo per lavorare in remoto e questo mi permette di non spenderne troppo in auto. Durante la pandemia sono stato a casa e ho riscoperto mille cose che avevo sostanzialmente dimenticato. A volte è bello badare anche a sé stessi.
Di sicuro è passato tanto tempo.
Quando ci eravamo allontanati è stato un po’ traumatico. Dal 2000 al 2003 avevamo pensato seriamente di tornare a fare musica insieme ed è stato in quel momento che ci siamo resi conto che non avere un percorso di vita assieme rende tutto più difficile. C’è bisogno di un progetto condiviso altrimenti è dura andare avanti. Dopo tanti tentennamenti, questa volta è andata bene. Vivo sulle colline di Berkley e durante la pandemia sono stato a casa oltre due anni. In quel periodo ho pensato ad una scalata e così è venuto fuori ‘K3’.
Partiamo dall’inizio. Nel 1991 nascono i Karma..
Torno dall’esperienza americana, dove ero entrato in contatto con una scena incredibile e ascoltato dischi su dischi, e vengo travolto dal movimento universitario di Milano. Entro in contatto con gli altri ragazzi che suonavano insieme già da qualche tempo e propongo alcuni pezzi miei. Nascono così i Circle Of Karma. Il nome era legato al fatto che già allora ero dentro a filosofie orientali. Fu Fabrizio Rioda dei Ritmo Tribale a convincerci a scrivere i testi in italiano e nel 1992 abbreviammo il nome in Karma e iniziammo a farci conoscere come prodotto italiano. Dopo le prove ci trovavamo sempre ad un pub a bere insieme e ricordo bene quando cominciammo a parlare della possibilità di scrivere in italiano. Portai ‘Sabbia’, la feci ascoltare agli altri ed il giorno dopo la stavamo registrando. L’idea era di uscire per la Black Out dei Ritmo Tribale, che era sotto Polygram. Però firmarono prima i Negrita e noi saremmo slittati al ‘95. Era troppo per dei brani che ormai erano pronti da tempo e così uscimmo nel ‘94 per Ritmi Urbani.
Ricordo bene quando vi intervistai nel ‘95 per uno speciale su Psicho!. La scena improvvisamente si trovò sotto i riflettori.
Gli anni ottanta hanno costituito la base. D’altra parte di gruppi di quel periodo ne sono sopravvissuti pochissimi. Quasi nessuno, perché i Liftiba degli anni novanta erano un’altra cosa, i CCCP non c’erano più e Andrea Chimenti aveva lasciato i Moda. Sono stati però anni fondamentali per dare vita ad una scena alternativa italiana. Pensa ai Ritmo Tribale, agli Almamegretta, ai Casino Royale, agli Afterhours. Era un movimento culturale che partiva dal basso e di colpo le etichette si interessarono e diventò un fenomeno di massa. Si passò dal suonare davanti a centocinquanta persone ad esibirsi al Leoncavallo davanti a tremilacinquecento persone. Fu un salto pazzesco e fummo fortunati perché godemmo di totale libertà. Il sogno però durò pochissimo perché le etichetta non realizzarono i numeri che pensavano, nonostante le vendite furono ottime, e quindi scaricarono tante band come la nostra. L’hype in ogni caso continuò grazie a Videomusic che passava i video delle rock band italiane. Quando uscimmo gli Afterhours cantavano ancora in inglese. Pubblicarono prima ‘Germi’ e poi ‘Hai Paura Del Buio?’ ed a quel punto Manuel Agnelli chiese ad Andrea di suonare il basso con loro, visto che era fermo.
A quel punto cosa è successo?
Andrea è entrato negli Afterhours e ci è rimasto dieci anni. Ciò si è aggiunto a vari dissesti personali e problemi lavorativi. Io stesso sono stato coinvolto in altri progetti e il gruppo non era più compatto come una volta. Per un periodo ho provato a fare ascoltare in giro quei quattro-cinque pezzi che sarebbero dovuti entrare nel terzo disco, alla ricerca di un contratto, ma capisco che sostanzialmente l’avventura era finita. Per me è stato durissimo accettarlo e così ho cominciato ad occuparmi di altre cose dal punto di vista creativo, lavorando soprattutto nell’editoria.
Vuoi parlarci dell’esperienza con i Juan Mordecai?
Nel frattempo mi ero spostato a Genova ed in una delle date genovesi degli Afterhours parlo con Andrea scopro che entrambi avevamo pezzi da parte. Ce li scambiamo e curiosamente entrambi avevamo smesso di scrivere in italiano. C’era qualcosa di acustico, di desertico e un po’ folle in quel materiale. Così nasce un progetto denominato come il soprannome che usavo per scrivere le recensioni dei videogiochi su Rolling Stone. In seguito coinvolgemmo anche gli altri Karma e questo fu il preludio alle date di reunion di qualche anno dopo.
Il bello è che, dopo tredici anni, siete tornati con un disco che poggia su vecchi valori, ma che può vantare una produzione modernissima.
Fare un disco nostalgico non avrebbe avuto senso secondo me. Poi io sono uno che si lancia sempre in avanti. In questi anni non sono mai stato fermo, sono un inquieto e non amo guardarmi indietro. Le lezioni del passato servono ad investire meglio nel futuro e non ripetere certi errori. ‘K3’ nasce come un lavoro personale perché in realtà l’ho composto e arrangiato da me. Era tutto pronto, volevo chiuderlo ed a livello di produzione non sono abituato a fare per conto proprio. Prima di tutto ho coinvolto Andrea e Salvatore, il fonico delle Officine Meccaniche, quindi persone con cui ho una grande intesa musicale. Poi ho pensato di correggere alcune cose. Non sono un batterista quindi volevo essere sicuro che alcune parti che avevo scritto funzionassero davvero. Poi sono passato alle chitarre ed alle tastiere. Avrei potuto coinvolgere turnisti, ma a quel punto ho provato a chiedere agli altri membri dei Karma e così abbiamo deciso di farlo uscire in questo modo.
Come hai ritrovato l’Italia dal punto di vista musicale?
Non c’è paragone tra gli Stati Uniti e l’Italia. Qui c’è passione per la musica rock mentre in Italia la musica mainstream è un’altra cosa. Da queste parti ci sono tutte le sere concerti e c’è grande libertà nella proposta. Soprattutto non c’è stato lo split demografico che invece è accaduto nel nostro paese, con posti per ventenni, locali per trentenni e così via. Qui vai a vedere i Tool e ci sono giovani e adulti e magari in apertura ci sono gruppi totalmente diversi. Le radio passano musica alternativa, ci sono tanti comunicatori e vari colori. Quando torno in Italia, di solito tre volte l’anno, mi rendo conto che siamo indietro. Ci sarebbe una scena underground ma non riesce ad emergere. Ascolto molto prog e post-rock e ricordo di essere rimasto stupito da certe canzoni dei Giardini Di Mirò. Ero felice che in Italia qualcuno facesse determinate cose e li andai a vedere. Erano reduci da delle date europee, pieni di entusiasmo, e c’era poca gente a vederli. Un altro esempio sono i Lacuna Coil. Non so davanti a quante persone suonano in Italia, ma negli Stati Uniti fanno i palazzetti da quattro-cinquemila persone e da noi non ne parla nessuno.
Prima hai parlato di ‘Sabbia’, uno dei pezzi più belli del debutto. C’è un pezzo del nuovo album che possiamo considerare altrettanto chiave?
Come ti dicevo questo è un disco decisamente autobiografico, nato in maniera inaspettata. Mi sono ispirato ad Il Monte Analogo, un fantastico romanzo di avventura di René Daumal. Quando ho scavato negli archivi, ho scoperto idee del ‘96 ed altre del 2000. Ho cominciato a raggrupparle e mi sono accorto che era veramente tanto materiale. Nei quaderni ho trovato scritti per i testi e ho cominciato a mettere insieme i pezzi, come in una sorta di playlist, amalgamandoli dal punto di vista del tema. È un lavoro che è nato pensando a dove sarebbe andato a finire il mondo. Alla meraviglia ed al fallimento dell’umanità. Ho capito che per sopravvivere serve accettare le proprie imperfezioni, con orgoglio e dignità. All’epoca in cui sono nati i Karma eravamo in pista per una rivoluzione mentre adesso le nostre vite sono cambiate. Questo per dirti che non c’è un pezzo che ha scatenato tutto. C’è stata una fortuita ricerca, un ritrovamento di idee che si sono magicamente unite ed incastrate.
Nella presentazione di ‘Neri Relitti’, si parla di viaggio odisseico. È stato più un viaggio fisico o mentale?
Anche in passato siamo sempre stati alla ricerca di un equilibrio o, come diceva Battiato, di un centro di gravità. Esiste quindi una spiritualità interiore che però poi in qualche modo deve essere portata fuori e deve spingerti ad agire. Il viaggio è metaforico. Nel 2000 di ‘Neri Relitti’ c’era solo il ritornello e tutte le strofe sono state scritte di recente. Quindi c’è anche la scelta di vivere negli Stati Uniti, di trasferirmi e non sentirmi più né italiano e né americano, visto che ho doppia cittadinanza. C’è anche un concetto di vittoria perché l’idea la presi da un servizio del telegiornale dove intervistavano dei ragazzi immigrati che indossavano maglie da calcio e festeggiavano il loro arrivo in Italia come se avessero segnato. Adesso non c’è più il concetto di vittoria, ma di sembrare vincenti. Non è un punto di arrivo, le dai e le prendi.
Cosa rende la musica ‘Eterna’?
Il concetto di eterno è molto interessante. Quello è un pezzo molto introspettivo, dedicato alla mia compagna in un momento drammatico del nostro vivere insieme. Abbiamo perso un bambino e questo ha scatenato in me tante domande esistenziali. La musica è eterna per la sua stessa natura. Non è qualcosa che puoi contenere, ti parla in maniera diretta, smuove delle onde dentro di te. Tocca le corde dell’anima e le sue vibrazioni guidano l’universo.
Se penso alla scena italiana di oggi, mi vengono in mente quasi solo gruppi degli anni novanta. Hai ascoltato qualcosa di rock alternativo che ti ha davvero colpito di recente?
Quando parli di alternativo, parli di qualcosa che non è mainstream. Secondo me il bene ed il male della musica alternativa degli anni novanta è stato che per un breve periodo è diventata mainstream. È stato un errore cosmico. I Litfiba di ‘17 Re’ non sono quelli di ‘Terremoto’, c’è poco da fare. Per fare mainstream ci vogliono le palle e, sempre citando Battiato, non è semplice fare musica che possa piacere a tutti. A volte nella scena alternative si cade in intellettualizzazioni eccessive. Non so se Pearl Jam o Soundgarden da noi sono mai entrati in classifica. Io ho sempre amato musica più complessa. Mi piace abbandonarmi. Oltre agli amici con cui suonavamo all’epoca, tipo Casino Royale, Ritmo Tribale o Afterhours, ho sempre amato i Marlene Kuntz ed i Verdena, con cui ai tempi di Juan Mordecai abbiamo condiviso lo studio. Poi forse soltanto Il Teatro Degli Orrori. Essendo cresciuto col punk dei Black Flag, ascoltare una potenza del genere e un “non-cantante”, che vomita parole bellissime quasi fosse un profeta, è stato il massimo.
Cosa avete pianificato per promuovere il nuovo album?
Sto per tornare in Italia per le prove del tour. La prima data sarà al Bloom di Mezzago, uno dei locali in cui abbiamo iniziato. Sarà quindi come suonare per gli amici. Poi saremo a Torino, Bologna, Roma e tra le varie date ci sarà anche una festa al Sonar, vicino Siena, che poi chiuderà e verrà ristrutturato.
(parole di David Moretti)