Con il passare degli anni, Jérôme Reuter si è progressivamente allontanato dalle sonorità marziali degli esordi allargando il novero delle sue collaborazioni, quella con Joakim Thåström per ‘The Hyperion Machine’ ma anche la live band che adesso lo segue dal vivo, e mantenendo un profilo compositivo di notevole spessore. Scorrendo la scaletta di ‘Hall Of Thatch’ pare di trovarsi al cospetto degli Swans, del Nick Cave più intimo e pessimista, eppure il cantato emotivo e oscuro dell’artista lussemburghese è sempre presente, forse più coraggioso se prendiamo come esempio ‘Keeper’ o ‘Clemency’, e apocalittico come un tempo. In un certo senso l’album tenta di coprire le pecche di ‘Hell Money’, altra uscita molto “americana” ma decisamente debole dal punto di vista del songwriting, con divagazioni nel doom folk e passaggi quasi assimilabili a singoli. È il caso delle bellissime ‘Blighter’ e ‘Martyr’ ma anche di una ‘Hunter’ che scava nell’animo di chi ascolta, ferito da guerre e letture disagianti, tirando fuori il suo lato più metafisico e intellettuale. Chissà se, in un periodo di vendite pari zero per l’industria musicale, tale formula funzionerà più di quella sperimentata con successo con lavori quali ‘Flowers From Exile’ e ‘A Passage To Rhodesia’. Ai posteri l’ardua sentenza.