Mark Tremonti è sempre più preso da una carriera lanciata a mille km orari. Da una parte ci sono i suoi Alter Bridge che hanno consolidato il proprio nome all’interno della scena alternative/metal con una serie di dischi che li hanno fatti apprezzare in tutto il mondo; dall’altra vi è il suo progetto solista che appare sempre più forte e di qualità con il passare degli anni. Sembra quasi passata un’eternità dal suo esordio “All I Was” del 2012 che pareva essere più un diversivo tipico di una rockstar in ascesa che altro. In realtà il chitarrista di origine italiana serbava al suo interno la voglia di dare sfogo alle proprie passioni più recondite (metal, speed, thrash) e per questo ha continuato a produrre negli anni lavori interessanti, in cui i suoni più violenti si sono andati a fondere con quel gusto per la melodia che non è mai mancato nella sua produzione. In più la voce del nostro, con il tempo, è molto migliorata e questo ha accresciuto la vera dimensione di artista a tutto tondo. Questa lunga premessa è fondamentale per capire come “Marching In Time” sia, probabilmente, il migliore album scritto da Tremonti da quando ha voluto viaggiare per conto suo. Due sono le peculiarità fondamentali. In primis le canzoni necessitano di più ascolti per entrare sotto pelle e questa è una peculiarità che possiedono solamente i grandi dischi. In secondo luogo le sue influenze sono sempre ben salde e in alcuni casi l’ex Creed ha provato a forzare in maniera intelligente la mano, a partire dall’opening track “A World Away” che parte con un riff degno dei migliori Pantera. I singoli, tipo “If Not For You” sono tosti e pesanti, pieni di chitarre sature e squarci che ammiccano ai sempre presenti Alice In Chains. Il gusto per i soli di qualità, che lo hanno portato ad essere acclamato come uno dei migliori chitarristi rock, non manca mai. In “Thrown Further”, ad esempio, si può notare tutta la sua qualità in materia, oltre che apprezzare la vena creativa e la bellezza di un brano tosto, veloce, ma dall’istinto melodico accattivante. Come spesso gli accade, Tremonti non ha voluto mancare l’appuntamento con le semi ballad e “The Last One Of Us” è decisamente una canzone che si fa apprezzare per la sua devastante semplicità. Il voler essere artista a tutto tondo è un’altra sua qualità e la title track si dipana come una piccola suite metal in cui la band si lascia andare, suonando senza soluzioni di qualità. A questo proposito, oltre a segnalare la presenza alla seconda chitarra e ai cori del fedele Eric Friedman (ex Creed dal vivo, Submersed, Projected), va apprezzata la prestazione dietro le pelli del nuovo arrivato Ryan Benett che non fa rimpiangere in alcun modo l’immenso Garrett Withlock. Ad esempio, è fenomenale il suo lavoro in “Let That Be Us” dove sembra di ascoltare una locomotiva lanciata a tutta velocità che dà una spinta preponderante a tutta la ciurma. Non ci sono mai cali di tensione, ma solamente tanta buona carne a cuocere, come dimostrano la ottantiana “In One Piece” e l’ottima “Under The Sun” che, probabilmente, potevano essere inserite nel menu degli Alter Bridge a cui, a volte, manca un certo coraggio nell’esplorare territori tosti, nonostante abbiano un fuoriclasse come Myles Kennedy alla voce. Tutto, dunque, funziona al meglio e la crepuscolare “Not Afraid To Lose” e le potentissime “Bleak” e “Would You Kill” mettono la ceralacca ad un album che è il miglior biglietto da visita che Tremonti offre a chi è ancora scettico sulle sue qualità compositive e di artista a tutto tondo.