Gli svedesi hanno raccolto le loro canzoni più lente e oscure. Se vogliamo più intime. Il successore di ‘Peace’ è infatti un disco con cui Joakim Nilsson ha voluto trasmettere molto del suo stato d’animo degli ultimi tempi. ‘Godnatt’ e ‘Bright Lights’, ma allo stesso modo potrei dire ‘Sad Song’ e ‘Rampant Fields’, sono pezzi che riprendono i sentimenti di innocenza e decadenza di una volta, lasciando che emerga un lato introspettivo e non necessariamente un impeto retrogrado. I Graveyard guardano sempre al passato, per carità, ma lo fanno con un approccio diverso. Un po’ quello che gli Hellacopters hanno usato per il capolavoro ‘So Sorry I Could Die’ e col quale Jonatan Ramm e Truls Morck, bassista giusto per dire, sembrano trovarsi a proprio agio. Oskar Bergenheim invece picchia duro dietro le pelli come se non fosse cambiato nulla, consapevole di cosa è rock e cosa non è rock. A tratti la scaletta propende per il blues o la psichedelia, mentre in altri frangenti la struttura delle tracce si fa più essenziale e la passione mai celata per il garage viene fuori con veemenza. Dopo numerosi ascolti confesso che fatico a scegliere un pezzo più indicativo degli altri. Forse ‘Breathe In Breathe Out’ perché tenta di avvicinare i Graveyard del passato e quelli di oggi, ma è sul serio complicato scegliere solo uno o due episodi per riassumere o presentare un’esperienza sonora del genere. Mi auguro soltanto che Nuclear Blast sia in grado di spingere a fondo ‘6’ e regalare a più appassionati di hard rock possibili un’entità preziosa come quelle che vengono considerate classiche.