Ascoltare gli Spiders è davvero un bel tuffarsi all’indietro con la mente agli anni d’oro, perché questi ragazzi ti costringono a pensare a quando il rock stradaiolo più sincero era una presenza stabile in vetta alle classifiche di mezzo mondo. Questa introduzione serve parecchio per comprendere il recinto d’azione in cui si muove la band scandinava che, in quasi quaranta minuti di musica, ci regala una piccola lezione nella quale ci spiega come si dovrebbe suonare rock n’ roll. Da “Sweet Boy”, che pare essere una sorta di outtake del grande Mark Bolan sino a “Schizoid” che riporta le lancette dell’orologio a quando i Rolling Stones scrivevano musica immortale durante gli anni settanta, la musica che arriva direttamente nelle casse dello stereo è coinvolgente ed ha il merito di dare origine a delle canzoni brevi, ma dirette che giungono senza fronzoli al cuore dell’ascoltatore. La voce di Ann-Sofie Hoyles, che a volte ricorda quella di Brian Molko dei Placebo, si sposa benissimo con questo sound molto scarno in cui sono chiaramente le chitarre a recitare un ruolo predominante. Lo si capisce quando il quintetto flirta con il punk, attraverso un pezzo alla Sex Pistols quale è “Mess With My Emotions” (anche se i contorni sono decisamente molto più curati e levigati) o quando lo stesso vira verso sonorità di natura surf-garage che troviamo in “Valentines”. Prendendo un pochino da una parte e tirando un altro pochino dall’altra, gli Spiders viaggiano che è una bellezza, tanto che una canzone come “Fun In The Sun”, pur essendo chiaramente derivativa, ci costringe a cantare a squarciagola come se non ci fosse un domani. Del resto questi brani, dal primo all’ultimo, sono stati scritti con il preciso intento di essere ricordati e suonati a tutto volume nei concerti dove siamo sicuri che i cinque non faranno prigionieri in alcun modo. Alla fine essere derivativi e poco originali non è sempre sinonimo di bruttezza o piattezza e gli Spiders, con questo platter, ce lo ricordano a caratteri cubitali.