È inutile nascondersi dietro ad un dito. Ogni disco dei Dream Theater è sempre atteso con molta curiosità da parte dei fans di tutto il mondo e anche degli addetti ai lavori. Su di loro, ormai, si è scritto e si continuerà a raccontare e dire ogni cosa, consapevoli che si sta parlando di una band che fa della tecnica disumana il suo vanto e, allo stesso tempo, cavallo di battaglia. Il saper unire il metal al prog degli anni settanta è stata l’intuizione geniale che, poi, ha aperto le porte a milioni di altre band che si sono ispirate a questi maestri newyorkesi che continuano a vendere dischi e a fare sold out in tutto il mondo. Se a questo aggiungiamo che Mike Portnoy si è nuovamente ricongiunto ai suoi storici compagni, si capisce come “Parasomnia” avrà, volenti o nolenti, le attenzioni di tutti, proprio perché esso è un nuovo capitolo di inizio per una formazione che non ne vuole sapere di smettere. Ora, se qualcuno pensa che questo disco riproponga i Dream Theater ai fasti di un tempo, può chiaramente smettere da subito di sognare. Molto più crudamente il nuovo episodio della saga si rivela un bel lavoro che presenta i pregi, ma anche qualche difetto (nessuno è perfetto in questo mondo), di cui tutti sappiamo, ormai, da tempo. L’album si apre con uno strumentale molto raffinato e pacato quale è “In The Arms Of Morpheus” che ha semplicemente il merito di spalancare la strada a “Night Terror” in cui ricompare il timbro immarcescibile e riconoscibile di James Labrie. In quasi dieci minuti si riascoltano i Dream Theater capaci di disegnare affreschi cupi, grazie alla chitarra pesantissima di John Petrucci, abile a scrivere riff di puro stampo metal. Le melodie ci sono, come al solito, e ogni tassello pare funzionare per il verso giusto. Con “A Broken Man” la quiete non arriva. Anzi, i cinque intendono raddoppiare, dando origine ad una composizione violenta e micidiale soprattutto in sede di introduzione. Poi c’è un cambio di atmosfere con le tastiere di Rudess che disegnano atmosfere plumbee su cui viene costruita una canzone lunga nella quale c’è la voglia, come sempre, di lasciarsi andare. Il tono di Labrie è più arrabbiato del solito ed il ritornello si apre su melodie molto trasversali che hanno bisogno di parecchi ascolti per poter essere assimilate. Nella seconda parte, poi, si entra in fase prog anni settanta con il pianoforte che detta ritmi e tempi, come se si trattasse di una “fuga” di Bach. Alla fine il cerchio si chiude con il rientro della classica strofa – ritornello che mette la parola stop ad una delle cose migliori scritte dai Dream Theater negli ultimi anni. “Dead Asleep” è un’altra mazzata di oltre undici minuti che ha una lunghissima introduzione strumentale dai contorni chiaroscuri. Abbiamo sempre il contrasto tra parti toste e altre più languide, con la voce di Labrie che arriva dopo “soli” tre minuti. A questo punto si crea il formato classico della canzone, anche se in tal caso non vi è molta ispirazione soprattutto quando si tratta di tirare fuori la parte del “chorus” che non è ispirata come altre volte. Il singolo (termine abbastanza difficile da collegare quando si parla di Petrucci e compagni) “Midnight Messiah” ha sonorità profonde, con tanto di cori di stampo ecclesiale medioevale che fanno da introduzione ad una cascata di note che i Nostri ci buttano addosso. Il componimento ha il marchio tipicamente “Dream Theater” ed ha la capacità di produrre la classica contrapposizione tra parti cadenzate ed altre velocissime. Certamente si lascia apprezzare, perché entra, con il passare degli ascolti, nella testa dell’ascoltatore. Un altro tratto caratteristico della band è quello di scrivere lenti che non possono passare inosservati. Anche in questa circostanza la tradizione è rispettata grazie ad una ballad malinconica come “Bend The Clock”, anticipata dalla brevissima “Are We Dreaming”, che potrebbe ripercorrere le orme di classici come “The Silent Man” e “Take Away My Pain”. A chiudere il cerchio, infine, ci pensa l’infinita “The Shadow Man Incident”, una vera e propria suite di quasi venti minuti in cui sono raccolti pregi (tanti) e difetti (brano estremamente lungo in cui si perde facilmente il filo del discorso) di una formazione che rimane ancorata ai suoi principi che sono quelli che poi vengono adorati da una fan base tra le più integerrime del pianeta. Qui si entra in modalità prog sempre più duro e, al tempo stesso, iconoclasta dove i musicisti si sbizzarriscono a suonare di tutto e di più. Jordan Rudess domina nel cuore del pezzo con il suo pianoforte classico, ma è solo un esempio su mille che se ne potrebbero fare per descrivere quello che è un vero e proprio bignami della carriera dei Dream Theater. Dunque, queste sono le parole con cui abbiamo provato a descrivere brevemente “Parasomnia”. Alla fine la cosa migliore è ascoltare il disco e da qui trarre le conclusioni. La certezza è che la band è ritornata su livelli più che buoni ed è questa, forse, l’unica cosa che conta.