Un'eredità pesante quella che Mikael Åkerfeldt ha ricevuto dal prog anni settanta e senza la quale non avremmo potuto godere di masterpiece quali 'Morningrise', 'Blackwater Park' e 'Ghost Reveries'. In passato 'Damnation' li aveva visti protagonisti di soluzioni acustiche e arrangiamenti più ricercati eppure sono dovuti passare diversi anni prima che gli svedesi decidessero di compiere il passo definitivo. Il suddetto album prese in controtempo la fascia di pubblico più intransigente ma consisteva ogni modo in una trasposizione acustica di una personale visione del death metal e non una manciata di canzoni che potrebbero essere stata composte da King Crimson e Camel. Il sottotitolo di questa recensione potrebbe essere ?in fuga dal death? e questo album finirà per allontanare qualcuno ma vi prego, non fatevi dissuadere da tali sciocchezze e lasciate che la vostra mente segua, libera da ogni costrizione, il sogno di un artista fuori dal comune. Il disegno degli Opeth è magniloquente, ambizioso, a tratti anche troppo astratto per focalizzare al massimo l'attenzione sul loro talento. Il complesso lavoro dietro la console di Jens Bogren e Steven Wilson esalta passaggi sublimi come 'The Devil's Orchard' e 'The Lines In My Hand' mentre contrabbasso, mellotron e clarinetto si ergono protagonisti di un suono tetramente vintage. 'Slither' è il brano più vicino alla decadenza di 'Watershed' e le successive 'Nepenthe' e 'Häxprocess' illuminano un songwriting che con gli anni ha preferito rifondarsi sulle proprie radici invece di esplorare impervi territori creativi.