In questi ultimi dieci anni, per nulla impaurito di smarrire ulteriore consenso, Mikael Åkerfeldt ha concentrato i propri sforzi nell'ottica di un arricchimento globale del sound, tanto che aggettivare come prog metal la musica degli svedesi sarebbe alquanto limitativo. Il loro è un suono indefinibile e magico che non disdegna retaggi di piece classiche, jazz e symphonic rock ma soprattutto un suono che non possiede nessun altro al mondo. Pur di difendere tale unicità gli Opeth sono andati incontro a parecchie critiche, alcune anche giustificate, ma hanno proseguito diritto senza voltarsi. ‘Pale Communion’ ha rappresentato uno step obbligatorio per una transizione che adesso con ‘Sorceress’ arriva al compimento assoluto. Scorrendo le tracce, registrate in Galles ai leggendari Rockfield Studios sotto la supervisione di Tom Dalgety (Royal Blood, Killing Joke) e Will Malone (Black Sabbath, Depeche Mode), si percepisce la ricerca di una connessione fortissima con l'ascoltatore, superiore anche a quella che si può sviluppare dal vivo. ‘Persephone’ apre il disco con un arpeggio da brividi e la title track è un riuscito ibrido tra scuola di Canterbury, Storm Corrosion e Alice In Chains. ‘The Wilde Flowers’ svela un approccio chitarristico memore degli anni settanta e degli incendiari concerti di quel periodo, le atmosfere sono più cupe di quelle di ‘Ghost Reveries’ e il frequente richiamo al nepente infonde alla tracklist un carattere mitologico che mi ha fatto subito pensare a ‘Morningrise’. Addirittura il leader ha citato Il Paese Dei Balocchi e il loro leggendario album tra le fonti di ispirazione e con tracce come ‘Will O The Wisp’ e ‘A Fleeting Glance’ conferma la sua creatura come un’entità surreale nell’industria musicale di oggi.