-Core
ICELAND AIRWAVES 2019 - GENERALE

Durante questi intensi giorni trascorsi a Reykjavík sono circolate voci sul fatto che la la presente potesse essere l’ultima edizione di Iceland Airwaves o che comunque fosse possibile un anno di pausa. Non solo l’organizzazione, su cui pesa il supporto minore di Icelandair, ha già annunciato la prossima edizione ma il successo del festival e la sua capacità attrattiva nei confronti di appassionati di musica e turisti da tutto il mondo ne hanno confermato, qualora ce ne fosse bisogno, la sua assoluta elitarietà. Chi viene in Islanda nella prima settimana di Novembre non lo fa solamente per assistere ad un numero spropositato di concerti, al cospetto della sontusità del vulcano Hekla e dell’Harpa, ma lo fa per interfacciarsi, in maniera indissolubile aggiungerei, con la scena musicale locale e scoprire, di anno in anno, realtà nuove e sorprendenti. Scrivere questo report, in esclusiva assoluta per l’Italia, è sempre molto triste. Significa non solo parlare di musica ma cercare di raccogliere le ultime forze, dopo una settimana intera trascorsa dormendo al massimo due ore a notte, e convogliare tutte le emozioni in qualche frase che possa avere senso. Significa tradurre in parole immagini mai viste prima, sensazioni che solo nella terra del ghiaccio e del fuoco puoi provare, rapporti umani, passione, gioia e stanchezza. Significa confrontarsi con altri giornalisti o musicisti con i quali discutere di musica fino a tarda notte. Significa soprattutto fare i conti con quello che hai realmente dentro e buttare fuori di getto tutto ciò che sei stato costretto a nascondere per troppo tempo. Chiunque prenoti un volo e scenda all’aeroporto di Keflavík deve essere consapevole che vivrà qualcosa di totalmente unico ed irripetibile, che non potrà mai vedere nulla del genere in nessun altro festival al mondo. Solo qui si respira un senso di profonda libertà ad ogni passo nei pressi del porto o di Hallgrímskirkja, passeggiando per le sale del museo di arte contemporanea oppure sedendo in una delle tante caffetterie di Laugavegur. È senza dubbio facile spaventarsi per il clima rigido ma quando vi troverete davanti al lago ghiacciato a fianco della City Hall o addirittura all’Aurora Boreale, comparsa come per magia la notte di Martedì mentre al Dillon si inaugurava una calda settimana per una delle migliori off-venue. Davanti a tutto ciò, il vostro corpo non avrà più bisogno di Lopapeysa e giacca a vento. L’ultimo giorno del festival, Reykjavík è stata colpita da una furiosa tormenta ed un buon sessanta per cento dei voli del giorno successivo sono stati cancellati. Capite bene che non si tratta di una delle situazione ambientali più semplici, considerato tra l’altro che la manifestazione si svolge in decine di diverse location da raggiungere a piedi, eppure gelo passa in secondo piano o scompare proprio. Ci sono molte ragioni per le quali chiunque di voi dovrebbe aspettare con ansia il prossimo mese di Novembre, preparare la valigia e prendere un aereo per l’Islanda alla ricerca di nuove, eccitanti e alquanto promiscue, sensazioni sonore. La prima è che non esiste un altro festival come Iceland Airwaves. In altri eventi il centro cittadino viene utilizzato come spazio per concerti però non troverete nulla di questo tipo nemmeno volando negli Stati Uniti. Teatri, cinema, chiese, bar, pub, caffetterie, sale da tè, ostelli adibiti in studi radiofonici, sale di attesa di hotel e di istituti bancari, biblioteche, addirittura negozi di abbigliamento vengono trasformati per l’occasione in venues estremamente curate o all'opposto essenziali nelle quali ascoltare musica magnifica. Spalancare le porte del Grund, un ospizio dove per l’occasione vengono portati bimbi delle scuole dell’infanzia per fare compagnia agli ospiti dell’istituto perlopiù in carrozzina, e trovarsi al cospetto di un gruppo del calibro degli Hjaltalín, della voce delicata di Sigríður Thorlacius o della personalità fortissima di Högni Egilsson, è qualcosa di molto difficile da descrivere a parole. Gli autori di ‘Terminal’ hanno dato dimostrazione del loro talento anche al Reykjavík Art Museum ed il loro nuovo album è quasi pronto. La seconda ragione coincide con una varietà della proposta che lascia esterefatti. Camminando per le splendide Laugavegur, Bankastræti e Austurstræti potreste infatti imbattervi in esibizioni di genere metal, jazz, indie, punk, pop, di musica classica e di elettronica. Vi potrà accadere di perdere la testa per qualcuno ad un live set rilassato e tranquillo e, lasciato trascorrere qualche giorno, dichiarare il proprio amore verso quella persona dopo aver ballato come pazzi in un dancefloor al limite dei termini di sicurezza. Potrete legarvi per sempre a qualcun altro, alle lucide vetrate dell’Harpa, dalle quali si vede davvero il futuro, o rimpiangere casa e famiglia ma sognare di potere tornare in qualsiasi momento. Emozioni turbolente, virali, lividi che si ammassano sulla pelle e che accompagnano lo scorrere di una programmazione da brividi. La terza ragione, per certi versi la più importante, riguarda le persone che si incontrano al festival. Per buona parte di mentalità aperta, desiderose di conoscere tutto senza porsi alcun limite di genere, immagine o sessualità con conseguente grande attenzione da parte dell'organizzazione nella scelta delle band da includere nella line-up. Pure quest’anno la sensazione è stata di un ritorno alle origini e la direzione artistica ha concesso grande spazio alla scena locale. Il numero delle off-venues è rimasto sostanzialmente invariato e, di fatto, il mio schedule si è rivelato al limite della follia come negli anni precedenti. Visto poi che in decine, ripeto decine, mi chiedono di suggerire loro i concerti da non perdere, mi sembra quasi di offrire un attimo di pazzia, una sorta di spensieratezza macchiata di paranoia, per cui è lecito non riposarsi e saltare i pasti pur di non perdere un solo momento di grande musica. Il festival è focalizzato quasi esclusivamente sulle performance e le band straniere non vengono mai invitate ad esibirsi più di una volta. Questo spinge ogni singolo musicista a dare il massimo, rende imperdibile ciascun evento, anche il più piccolo ed in apparenza trascurabile, e dà la possibilità, per chi non deve correre in continuazione come il sottoscritto, di passeggiare con calma, godersi la città in tutte le sue sfumature e scoprire musicisti incredibili in teatri, musei e location improvvisate. Non solo, dopo aver promosso la Keychange Foundation ed aver vantato un bill totalmente gender-balanced in occasione della sua ventesima edizione, Iceland Airwaves ha puntato in maniera decisa sulle artiste femminili, ricercando personalità, unicità e capacità di stupire. Un messaggio diretto a chi ancora considera in maniera superficiale o omofobica il ruolo di donne, gay e lesbiche nell’industria musicale. La risposta, coi fatti, che si può offrire qualcosa di differente al pubblico senza cadere nell’ipocrisia o avvalersi dei soliti discorsi di facciata che non portano a niente. In questi giorni sono poi usciti articoli, mi vengono in mente NME, The Line Of Best Fit e Iceland Monitor, sugli artisti che avrebbero dominato il festival e sull’influenza della musica islandese sulla scena di Hollywood – incentrato sul successo che sta ottenendo la compositrice Hildur Guðnadóttir dopo le colonne sonore di Chernobyl e Joker – e la mia riflessione non può essere quella che effettivamente Iceland Airwaves è molto di più che un semplice festival. È un investimento culturale, non solo economico, ed uno strumento indispensabile di confronto con colleghi e personalità dell’industria, in tal senso il numero di partecipanti alle conferenze di Airwaves Pro è significativo. Ogni anno gli amici del Social Travelers Group di Facebook, moderato senza pecche o inganni da Tony e sempre più numeroso, mi chiedono quale sia stato il mio concerto preferito o l’esibizione indimenticabile. Sinceramente faccio fatica a rispondere. Un po' perché ho assistito a decine di concerti strepitosi e un po' perché la mia mente al momento è incapace di cancellare anche il minimo ricordo e selezionare i migliori. Se proprio dovessi scegliere direi Ayia e Hatari per come sono riusciti a pietrificarmi, i primi, e far saltare per aria Reykjavík Art Museum e Gaukurinn, i secondi, ma sarebbe una risposta approssimativa e odio le risposte approssimative. Approfitto dello spazio per salutare tutte le persone che hanno condiviso con me questi momenti speciali. Prima di tutto Sinem, in un modo o nell’altro sei sempre con me e faccio fatica a pensare di stare così tanto tempo senza rivederti. Lo stesso vale per Alvia che tornerà ad esibirsi il prossimo anno con quella imprevedibilità e quella dolcezza che la rendano una delle artiste più dotate e sexy del momento. Mi sono imbattuto in Zazie, al museo, mentre stavo intervistando gli Ayia e vi assicuro che la mia attenzione era totalmente rivolta agli occhi malati di Ásta Fanney Sigurðardóttir. Eppure mi sono distratto, con la scusa di una fotografia l’ho conosciuta e da quel momento me la sono ritrovata sempre tra i piedi. Le tue polaroid non verranno scordate. Chi mi sta facendo arrabbiare sono Carmel Evangelista e Søren Bisgaard che per il secondo anno di fila mi hanno supportato da lontano, con il loro amore e la loro amicizia. Un’altra conoscenza inattesa e magnifica è stata quella di Klara Þorleifsdóttir che ha di colpo acceso la serata del Sabato, quando le bevande energetiche non facevano più effetto, e difficilmente uscirà dalla mia memoria nel breve periodo. Schiacciato alla transenna del Gaukurinn, in attesa che gli Hatari spaccassero tutto, ho conosciuto una fotografa di talento e di una purezza infinita. Oltre a lei, è stato divertente avere accanto Nina Laa, venuta dalla Germania in preda alla mania per Matthías Tryggvi Haraldsson, Klemens Nikulásson Hannigan e Einar Hrafn Stefánsson e capace di gridare a squarciagola tutte le loro liriche. Come non citare poi Bryce Lafoon, mitico fotografo per cui non fa la differenza cercare l’angolo migliore di scatto sulle pendici di un ghiacciaio o sotto palco. Con Erica era un continuo ritrovarci sotto palco e darci conforto a vicenda, Katie McKay dice che sono pericoloso mentre Raschelle Reyneveld, americana con degli occhi che non finiscono più si è trasferita in Islanda per un mese allo scopo di registrare il suo album. Il governo ha di recente lanciato una campagnia per incentivare in tal senso i musicisti proveniente da tutto il mondo e così, sfruttando le mie conoscenze, ci siamo messi a cercare degli studi che facessero al suo caso. Entrambe pubblicheranno a breve i loro primi lavori e non vedo l’ora di ascoltarli. Tra i diversi italiani presenti all’Airwaves, con Gianluca condividiamo una passione al limite del maniacale per JFDR e Sóley e le seguiremmo anche sui ghiacciai. Vorrei salutare anche tutte le persone che ho conosciuto per la prima volta durante questa settimana così come tutti i musicisti che si sono fermati a salutarmi, con cui ho condiviso un paio di party, sui quali sarà meglio non fornire troppi dettagli, o che ho intervistato. La lista sarebbe troppo lunga e sicuramente noiosa ma su alcuni non posso tacere. Aoife McCann è una ragazza irlandese che si fa chiamare Æ MAK ed arriva tardi agli appuntamenti. I suoi occhi sono blu come le onde che si infrangono sugli scogli nei pressi dell’Harpa e trasmettono una determinazione nell’arrivare in alto che fa spavento. In contrasto, è una delle persone più dolci che mi sia capitato di incontrare. Vi ho detto prima di Ásta Fanney Sigurðardóttir, ebbene sono stati sufficienti pochi istanti per comprendere cosa c’è davvero dietro agli Ayia. Mentre rispondeva alle domande, gli occhi le andavano su come fosse un’indemoniata. Non per qualche secondo. Per tutta l’intervista e vi posso giurare che non recita. Nelle sue parole sono spesso ricorsi termini come spiritualità, rituali, sciamanesimo e quando mi ha spiegato come decide se merita lavorare su una linea melodica o meno, ovvero se sente il vento dietro a sé che si sostituisce ai respiri, mi sono reso conto che il loro esordio discografico, a breve stampato anche in formato fisico da Bedroom Community, non è soltanto un album. Sunna mi ha colpito per la sua timidezza, curiosa in rapporto al suo talento smisurato, ma in quanto a timidezza gli Ateria non li batte nessuno. Peccato che Ása e Eir Ólafsdóttir, rispettivamente diciannove e diciassette anni, siano le nipoti di Kjartan Sveinsson. Quando me l’hanno detto sono rimasto pietrificato. Per loro era una cosa normale come avere iniziato a suonare appena terminata la scuola materna. “Per favore, fai attenzione...”, ho detto a Kata al termine della nostra intervista. E lei, incinta di sei mesi, mi ha risposto: “Ma sì certo, starò tranquilla...”. Andatevi a vedere i filmati dell’esibizione dei Mammút. Una menzione la merita poi Josh Wilkinson, produttore australiano che sta curando nei dettagli il prossimo lavoro di JFDR, per la pazienza dimostrata nei confronti durante il Reykjavik Modular #001. Nel corso dell’evento, nel quale si sono esibiti pure Hermigervill e Jesper Pedersen, si è infatti messo ad insegnarmi come usare dei sistemi di synth modulari o il motion control. Sono riuscito a non fare danni e ciò mi rende pieno di orgoglio. Infine Margrét Rán Magnúsdóttir. Nel suo abbraccio c’è tutto quello per cui vale la pena scrivere di musica. Nelle pagine seguenti troverete un report dedicato ad ognuna delle giornate del festival tramite le quali capirete lo schedule insano che ho dovuto affrontare ma pure quanto il divertimento e la fame di musica possano avere la meglio sul sonno, la stanchezza e la mancanza di cibo. Nei prossimi giorni invece leggerete tutte le interviste che ho potuto realizzare a pochi gradi, davanti distese di neve o un caffè bollente servito da qualche cameriera invitante, nei vari backstage o negli studi di registrazione. Una lente di ingrandimento su ogni singolo aspetto di una comunità culturale fantastica che tutti gli anni invita sul proprio territorio migliaia di anime provenienti da ogni parte del globo.

 

 

Latest